
Tra coaching e poesia
“La poesia è una parola molto amorevole rivolta all’altra persona, per indurla a sentirsi più umana”, diceva Giuseppe Ungaretti in una sua intervista. Questa riflessione mi ha fatto pensare immediatamente al coaching e al flusso potente delle domande. Si potrebbe parafrasare Ungaretti e sostenere che “il cuore del coaching è un flusso di domande rivolte in modo amorevole all’altra persona, per aiutarla a scoprire il suo potenziale”.
Questo parallelismo – che non vuole e non può essere una definizione di coaching – mi permette di soffermarmi non tanto sugli strumenti del poeta e del coach – le domande e le parole – quanto su due aspetti che ritengo essenziali sia nella mia esperienza poetica sia nella mia esperienza embrionale di coaching.
La parola “amorevole”
Il primo aspetto riguarda l’aggettivo “amorevole”. La parola poetica, ci insegna Ungaretti, non è una parola qualsiasi, ma è una parola sempre intrisa d’amore, anche quando nasce dal dolore o è forgiata nel tormento, persino quando fa male. La parola nasce e viene donata come gesto d’amore, l’amore fecondo per la vita in tutta la sua drammaticità, un amore che si distanzia dal mero gusto sterile per la parola.
Come le parole del poeta, le domande del Coach sono donate “con amore” – esperienza che trasforma sia chi le pone sia chi le riceve – un gesto che permette alle persone di sentirsi apprezzate, volute bene e accolte. Questa prospettiva, che nel coaching si traduce nella relazione facilitante basata sulla fiducia, permette di squarciare quel velo di diffidenza che rende opache le cose e che impedisce di intraprendere un chiaro cammino all’interno del proprio io.
Parlare di “amore” in un contesto professionale come il coaching potrebbe sembrare inappropriato, eppure non esiste termine più adatto per descrivere l’attitudine di chi fa della passione per l’umano la propria vocazione professionale.
Risvegliare l’invisibile: il viaggio verso il potenziale
Il secondo aspetto riguarda la scoperta o la riscoperta di quella che il poeta chiama umanità e che il coach, nel suo linguaggio, chiama potenziale. Le parole e le domande non sono fine a se stesse, ma hanno lo scopo di indurre gli esseri umani a sentirsi più umani, di aiutare le persone a scoprire e a far fiorire il proprio potenziale.
Questo scopo parte da un presupposto sottinteso, ma non scontato: dentro di noi ci sono tutte le risorse di cui abbiamo bisogno, dentro di noi ci sono gli strumenti pronti a risuonare quando incontriamo quello che aneliamo. Con parole più semplici: siamo stati fatti bene, non siamo stati fatti male. La poesia funziona perché siamo stati fatti bene, il metodo maieutico funziona perché siamo stati fatti bene.
In un mondo che racconta che c’è sempre qualcosa di mancante nell’uomo, che c’è sempre una malattia da guarire o una stortura da raddrizzare, poter accogliere e scommettere sul fatto che la vita delle persone possa fiorire, poter credere e investire nel potenziale dell’essere umano, è un messaggio sorprendente.
L’arte della fatica e il coraggio di trasformarsi
Sia il poeta che il coach sanno che il “funzionare” della poesia e del metodo maieutico non è un automatismo: affinché poesia e metodo maieutico funzionino è necessario un lavoro su più livelli. Il lavoro del poeta che affina la sua voce e si allinea con il proprio ritmo interiore, per esplorare gli angoli più oscuri del cuore. Il lavoro di chi legge la poesia, che permette di sprigionare l’energia necessaria per far risuonare i versi con una nuova voce. Il lavoro del coach che si prepara ad essere un allenatore amorevole e puntuale per il suo coachee, che, come il poeta, affina la voce e mette in gioco tutto se stesso. Il lavoro che è richiesto al coachee durante tutto il suo percorso, un lavoro che comporta la fatica dell’autonomia e della responsabilità che l’allenamento del coach rende più impegnative.
Il lavoro implica una fatica e la fatica maggiore è quella di voler accettare la sfida di uscire dalla comfort zone, di uscire dall’uscio (per usare un linguaggio caro alla letteratura). Non si tratta di magia quando improvvisamente un verso, perché spesso basta un semplice verso, ridesta l’umanità del poeta o del lettore, né il coach ha trovato la domanda delle domande quando al suo coachee brillano gli occhi e si capisce che qualcosa è accaduto.
Queste esperienze sono frutto del lavoro e dalla fatica, del coraggio di mettersi in gioco e di fidarsi di un’altra persona, sono esperienze che, pur in gradi diversi, il poeta, il lettore, il coach e il coachee condividono.
La voce nel silenzio
Le parole e le domande non sono gli unici strumenti che il poeta e il coach hanno in comune, ne esistono molti altri e tra questi, per me, il più significativo è il silenzio. Io credo che il silenzio sia così importante perché ci permette di mettere a tacere il rumore di fondo nel quale siamo immersi, affinché emerga la nostra vera voce.
Il poeta deve fare silenzio, deve mettere a tacere il rumore esterno e il suo tumulto interiore, affinché la sua voce canti e la parola emerga. Il silenzio del poeta, frutto di un lavoro estenuante e bellissimo, permette al poeta di capire che è tale anche quando tace, perché non è nello strumento – la parola – che giace la poesia, ma in qualcosa che precede la parola stessa.
Il coach deve fare silenzio, deve lasciare spazio affinché il coachee possa essere, affinché il coachee possa emergere in tutta la sua unicità. Quello del coach è un silenzio che diventa attesa, un’attesa certa e fiduciosa che può trovare la sua immagine nei versi della poetessa Antonia Pozzi:
Ho tanta fede in te. Mi sembra che saprei aspettare la tua voce in silenzio, per secoli di oscurità.
Il silenzio fiducioso, non giudicante, il silenzio carico d’attesa è un modo potente per accogliere l’altro con i suoi spazi, le sue debolezze e la sua forza, è un modo grande per poter far sentire le persone accolte. C’è un elemento che mi ha colpito molto del silenzio durante le sessioni di coaching ed è la mancanza di imbarazzo che, invece, sperimentiamo in altre circostanze “silenziose” della nostra vita. Si tratta di qualcosa di innaturale, che richiede lavoro e fiducia, per certi versi la “qualità” del silenzio può essere un indizio importante del funzionamento della relazione facilitante.
Lo sguardo che sa attendere
Il gioco di parole nato sulla frase di Giuseppe Ungaretti mi ha permesso di mettere in risalto alcuni aspetti che mi hanno colpito del coaching rispetto alla mia esperienza poetica, eppure la cosa più importante non è contenuta in modo esplicito nelle parole di Ungaretti. L’aspetto che mi ha fatto sentire il coaching un’esperienza nuova ma non estranea è lo sguardo.
Con o senza occhiali, il poeta e il coach condividono lo sguardo, uno sguardo capace di andare a fondo della natura umana. È uno sguardo allenato a vedere oltre le apparenze, oltre le parole, oltre i silenzi. Non è uno sguardo che pretende di sapere, ma uno sguardo che sa attendere che l’altro sveli se stesso, nei suoi tempi e nei suoi modi.
È questa pazienza dello sguardo, questa attitudine a scorgere ciò che ancora non c’è ma che può essere, che rende tanto il poeta quanto il coach testimoni privilegiati del mistero umano, custodi di quella possibilità di trasformazione che ciascuno di noi porta dentro di sé.
Giovanni Gut
Poeta e Coach Professionista | Lombardia
giovannigut@gmail.com
No Comments