
“Stampelle”
Il re cadde da cavallo, fratturandosi le gambe così gravemente da perderne l’uso. Imparò dunque a muoversi con le stampelle, ma sopportava male la propria invalidità. Vedersi attorno le persone valide della corte gli divenne presto insopportabile e gli guastò l’umore. Rifiutò di mostrarsi menomato.
“Poiché non posso essere simile agli altri […], ciascuno sarà simile a me.”
Fece dunque notificare nelle sue città e nei suoi paesi l’ordine definitivo dell’uso delle stampelle per tutti, pena la morte immediata. Dall’oggi al domani, l’intero regno fu popolato di persone rese invalide. All’inizio, alcuni provocatori si fecero vedere in giro senza alcun sostegno. Fu certo difficile acciuffarli di corsa, ma tutti prima o poi vennero arrestati, condannati e giustiziati per servire di esempio. Nessuno osò ripetere la provocazione. Per proteggere la prole, le madri insegnarono subito ai loro bambini a camminare con le stampelle. Bisognava abituarcisi, ci si abituò.
Il re visse fino a tarda età. Nacquero parecchie generazioni senza che si vedesse mai nessuno circolare liberamente sulle sue gambe. Gli anziani scomparvero senza dire nulla delle loro lontane passeggiate, senza osare infondere nella mente dei figli e dei nipoti il pericoloso desiderio di deambulare senza sostegni.
Alla morte del re, alcuni vecchi tentarono di liberarsi delle stampelle, ma era troppo tardi, i loro corpi malandati ne avevano ormai bisogno. […] Inutilmente raccontarono che un tempo si camminava liberamente, senza stampelle: vennero guardati dall’alto in basso, con l’indulgenza ilare concessa ai rimbecilliti.
“Ma sì, nonno, andiamo, era senza dubbio ai tempi in cui il becco dei polli aveva i denti!”
E con un sorriso in tralice, uno scambio di occhiate, scrollavano il capo ascoltando la vecchia voce, prima di andare a ridere di nascosto.
Lontano, lassù sulla montagna, viveva un vigoroso vecchio solitario che, appena morto il re, gettò le stampelle nel fuoco senza esitare. In realtà, erano anni che non usava le stampelle in casa o in luoghi isolati. Le usava nel villaggio per evitare le noie ma, non avendo né sposa né figli, non si era privato del piacere della sua bella camminata. Non esponeva altri che se stesso, e per di più in tutta segretezza! Il mattino dopo, si recò spavaldamente in piazza e, rivolto ai suoi compaesani sbalorditi, disse:
“Ascoltatemi, dobbiamo ritrovare la nostra libertà di movimento, la vita può riprendere il suo corso naturale poiché il re invalido è ormai morto. Chiediamo che venga abrogata la legge che costringeva gli esseri umani a camminare con le stampelle!”
Tutti lo guardavano, i più giovani furono immediatamente tentati. La piazza brulicò ben presto di bambini, di adolescenti e di altri sportivi che tentavano di muoversi senza stampelle. Ci furono risate, cadute, scorticature, lividi, ma anche alcuni arti rotti poiché i muscoli delle gambe e della schiena non avevano mai imparato a sorreggere il corpo. Il capo della polizia intervenne:
“Smettetela, smettetela! È troppo pericoloso. Tu, vecchio, va’ a esibirti nelle fiere. È chiaro che gli uomini non sono fatti per camminare senza stampelle! Guarda quante piaghe, quanti bernoccoli e quante fratture ha provocato la tua follia! Lasciaci vivere normalmente. Sparisci e, se vuoi vivere tranquillo, non tentare più di traviare questa bella gioventù!”
Il vecchio alzò le spalle e se ne tornò a casa a piedi.
Scesa la notte, udì grattare piano alla sua porta.[…]
“Chi siete? Che cosa volete?” – chiese.
“Apri, nonno, per favore, bisbigliò una voce.”
Il vecchio aprì.
Dieci paia di occhi brillanti lo guardavano con ardore. Un ragazzino, fattosi avanti, mormorò:
“Vogliamo imparare a camminare come te. Accetteresti di prenderci come discepoli?”
“Discepoli?”
“Maestro, è questo il nostro desiderio.”
“Bambini, non sono un maestro, sono solo un uomo in gamba, nel senso più semplice della parola.”
“Maestro, per favore” – supplicarono all’unisono.Il vecchio ebbe voglia di ridere, ma, contemplandoli un attimo, si commosse.
Capì che la faccenda era seria, persino capitale, che quei bambini erano coraggiosi, ardenti, pieni di vita. L’avvenire era nelle loro mani. Spalancò la porta per accoglierli.Per mesi, senza dire niente a nessuno, i ragazzini si recarono dal vecchio da soli o in due alla volta per non dare nell’occhio. Quando furono abbastanza abili, andarono a piedi, insieme, al villaggio.
“Guardate, dissero, osservateci, è facile e divertente! Fate dunque come noi!”
Un’ondata di panico invase i cuori timorosi. Gli abitanti del villaggio aggrottarono le sopracciglia, li additarono, si spaventarono molto. Intervenne la polizia a cavallo per far cessare lo scandalo. Il vecchio fu arrestato, portato in tribunale, condannato secondo l’editto reale e giustiziato per avere pervertito dieci innocenti.
I suoi discepoli, disgustati dal trattamento inflitto al loro maestro, dichiararono a gran voce sulle piazze che camminavano e ne erano soddisfatti, mostrando a chi volesse vederli quanto fosse comodo avere le mani libere e le gambe leste. Le loro dimostrazioni vennero giudicate fallaci. Furono arrestati e gettati in prigione. Si ritenne tuttavia che fossero stati trascinati nell’errore e si concessero loro le circostanze attenuanti, quindi furono condannati solo a pene leggere. […]
Per coloro che erano rimasti e che insistevano davvero in modo eccessivo, si dovette talvolta applicare con rigore la legge; in generale, tuttavia, vennero piuttosto commiserati e trattati come gli scemi del villaggio, tenuti a distanza dai bambini o dalle buone famiglie.
Ancora oggi, durante le veglie serali, si bisbiglia con parole velate che esistono malgrado tutto, qua e là nel mondo, gruppetti che non sembrano di mentecatti e che sostengono di camminare da soli, senza stampelle. Impossibile da verificare. Si insegna ai bambini che son solo favole. [1]”.
Ho scelto questo racconto come metafora per spiegare alcuni importanti aspetti del coaching.
Per quanto mi riguarda da questa storia si evincono quattro punti fondamentali:
1. I CONDIZIONAMENTI CI FANNO ALLONTANARE DA UN SE AUTENTICO E CI PORTANO AD UN SE ARTIFICIOSO.
Il susseguirsi di condizionamenti nel corso della vita porta le persone ad allontanarsi dal sé autentico per rifugiarsi in un sé artificioso; il ruolo del coach è aiutarle a ritrovare l’amore dentro di sé, e di conseguenza a ritrovare il sé autentico.
I condizionamenti sono molto presenti nella nostra società e nella vita di ognuno e purtroppo hanno come triste risultato l’offuscamento di quelle che sono le nostre vere potenzialità.
Nel racconto vediamo che il Re essendo lui per primo menomato, vuole che anche tutti gli altri lo siano; come lui, vuole che tutti abbiano le stampelle. Questa metafora ci fa vedere chiaramente come una persona che vive secondo condizionamenti vuole che anche gli altri vivano allo stesso modo.
La società di oggi purtroppo, tende ancora ad essere un insieme di persone rese conformi. Ciò che è deciso dalla massa è ritenuto normale. Anche se finisce con il “menomare” un individuo, a non far emergere le sue potenzialità, la sua autenticità.
Un coach sa quanto potente sia l’influenza delle convinzioni nella vita del coachee. E’ consapevole che tanto più una convinzione è radicata, tanto più egli tenderà a scegliere una soluzione che confermi queste sue idee. Anche se questo non lo porterà a raggiungere i suoi obiettivi, ne tanto meno essere felice. Un buon coach lavora quindi affinché la madre di tutte le potenzialità emerga: la consapevolezza. Consapevolezza che alla fine condurrà alla eudaimonia.
Una valida relazione di coaching è dunque orientata allo sviluppo del coachee verso la sua autenticità. Ma in primo luogo è il coach a dover essere autentico, a dover essere soggetto risvegliato per risvegliare.
Come avviene questo passaggio?
2. L’AMORE E’ LA VIA CHE TI CONDUCE A TE STESSO.
Ingrediente basilare nella relazione di coaching è il non giudizio, è l’amore incondizionato. Solo l’amore incondizionato permette l’instaurarsi di un rapporto risolutivo per il coachee.
Analizzando il racconto possiamo notare come il personaggio del vecchio solitario descriva bene la relazione tra coach e coachee in quanto il maestro si pone alla pari senza giudicare o indirizzare. Tra l’altro lui non si definisce “maestro”. Al contrario, quando uno dei ragazzi lo chiama in questo modo lui risponde con umiltà che è solo “un uomo in gamba”. Non si mette quindi in una posizione di superiorità rispetto agli altri, ma alla pari. Proprio come dovrebbe essere una relazione efficace tra coach e coachee:
-simmetrica nell’interazione. (Relazione alla pari, prevale l’uguaglianza; non c’è un interlocutore che comanda e uno che subisce).
-complementare nei ruoli. (Ognuno ha un ruolo specifico e la posizione di uno determina la posizione dell’altro).
-asimmetrica nel contenuto. (Il contenuto lo porta il coachee che è il focus nella relazione di coaching). [2]
Questa relazione facilitante non è altro che lo spazio espressivo in una cornice di fiducia che il coach lascia al coachee. Il coach è vuoto e di fronte al vuoto esiste il pieno. Il coach quindi non occupa spazio all’interno della relazione. Non mette, toglie casomai.
Il lavoro più difficile non è imparare cose nuove, ma disimparare. Disimparare per lasciare spazio ad aspetti che abbiamo già dentro di noi. Si riscopre quindi. Nel caso del racconto essi riscoprono la loro capacità di camminare senza stampelle, ritrovano l’equilibro togliendo ciò che c’è di artificioso.
Il vecchio saggio aiuta i ragazzi con amore incondizionato, con infinita pazienza affinché anche loro possano essere liberi. Egli stesso rischia in primo luogo per la sua libertà e quella altrui.
L’educazione tramite l’amore incondizionato ha questo scopo: restituire le persone a se stesse. Con infinita pazienza, con semplicità. “Te stesso” nel caso del nostro racconto quindi è di una persona senza stampelle.
3. IL POTERE DELLA METAFORA.
Come anticipato all’inizio vorrei analizzare la metafora come strumento d’aiuto e come potente mezzo che conduce al cambiamento.
Cos’è una metafora?
Dal greco meta (al di là) + phorein (portare). Portare da un posto ad un altro. La metafora porta a capire e sperimentare una cosa attraverso un’altra. Essa può rivelarsi un importante sentiero che guida in mezzo al “labirinto dei condizionamenti” e riconduce “a casa”, al proprio se autentico.
Un semplice racconto come “Stampelle” potrebbe allenare alla consapevolezza. Io ho scelto questa storia, ma se ne possono usare tantissime.
E non solo storie. Anche film, libri, disegni, poesie, citazioni, eccetera.
Le metafore sono davvero potenti perché con esse si può spiegare qualcosa di ignoto con qualcosa di noto. Con assoluta semplicità. Il buon coach utilizza la semplicità. Perché la semplicità conduce all’essenzialità. E quindi ci si libera dalla “spazzatura”. Si ritorna al naturale principio di omeostasi che è dentro di noi.
L’uomo nasce in equilibrio, è quando gli si da “il più” che si “deforma”. Come le stampelle. Le stampelle sono la metafora dei condizionamenti esterni, di volontà altrui, di qualcosa di artificioso che non appartiene ad un sé autentico.
Un importante significato del coaching è quello di risvegliare nel soggetto ciò che è.
Di aiutarlo ad orientarsi per uscire dalla sua crisi di autogoverno. Perché che cosa può governare una persona se non è consapevole nemmeno di chi è?
Tra tutti gli strumenti che il coach ha a sua disposizione quindi,(domande efficaci, silenzi, workhouse…) l’utilizzo della metafora riveste un ruolo a mio parere indispensabile. Essa, infatti, fa parte del nostro processo di pensiero e di attribuzione di senso, tanto che è quasi impossibile spesso spiegare contenuti interni e idee astratte senza utilizzarle.
Anche nel nostro linguaggio di tutti i giorni utilizziamo continuamente metafore. Immaginiamo che un coachee faccia un’affermazione di questo tipo: “Mi sento una pecora nera”.
Allora un coach potrebbe chiedere: “Mi sapresti descrivere le caratteristiche che vedi in tutte le altre pecore bianche? Quali aspetti differenziano secondo te pecore nere rispetto le pecore bianche?”
Oppure potrebbe usare espressioni come: “Mi sento con le spalle al muro.”
Qui il coach potrebbe dire: “immaginiamo che questo muro sia di cartone, che cosa ti occorre per buttarlo giù?”
Oppure il coach stesso potrebbe sollecitare il coachee stesso all’utilizzo della metafora.
Per esempio: “Avresti voglia di provare a descrivere questa situazione con una metafora o un’immagine?”
Altro aspetto affascinante delle metafore è che esse durano nel tempo. Una storia scritta più di 2000 anni fa può trasmettere messaggi e significati attualissimi. E, risvegliare nel coachee una grande consapevolezza.
Le cose valide non temono le mode, durano nei secoli dei secoli. Come lo strumento della metafora. E come il metodo del coaching, già presente come metodo ai tempi di Socrate.
4. CREDERE.
“Che tu creda di farcela o di non farcela avrai comunque ragione”. (Henry Ford)
Durante un qualsiasi processo, di cambiamento, di allenamento, di sviluppo, di guarigione, i risultati non sono immediati. Anzi, ci potranno essere anche diverse cadute durante il percorso.
Perciò avere pazienza, avere fede e credere è molto importante.
E’ vero che ogni cambiamento spaventa. E le persone non si fidano di loro stesse quando hanno alle spalle anni di “stampelle”.
In una domanda di coaching esiste la volontà di cambiamento migliorativo da parte del coachee. A volte il cambiamento è desiderato, a volte diventa proprio necessario. Ma per fare ciò il coachee potrebbe trovare delle resistenze interne, semplicemente per il fatto di dover uscire dalla sua zona di comfort.
Un coach non spinge il coachee al cambiamento. Lo guida semmai nella consapevolezza e se egli non è contento a capire casomai che cosa vuole togliere per ritrovare se stesso e le sue potenzialità e raggiungere i suoi obiettivi. Quindi il cambiamento avverrà naturalmente.
Il segreto sta nel partire dalle cose più semplici. Che cosa è più facile togliere e cosa invece è più difficile?
Una persona per riuscire a credere di essere in grado di camminare ancora con le proprie gambe dopo tutti gli anni passati con le stampelle ci deve arrivare un po’ alla volta. Togliendo gradualmente ciò che non gli serve (condizionamenti, ostacoli), allenando ciò che serve (potenzialità) e con la fiducia che se lavora efficacemente i risultati prima o poi si raggiungono.
“Se le persone non credessero di poter produrre con le loro azioni gli effetti che desiderano, avrebbero pochi stimoli ad agire.” (Bandura,2000).
Come credi così sarà.
RIFERIMENTI:
[1]: Racconti dei saggi dell’India – Ippocampo 2010.
[2]: L’Essenza del Coaching – Franco Angeli 2012.
Alessia Bertoldo
Life & Business Coach
Vicenza
lelabert@libero.it
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