
Open your mind
Apri la mente a quel che io ti paleso
e fermalvi dentro che non fa scienza,
senza lo ritener aver inteso.
(Canto V Paradiso, Dante Alighieri)
Open your mind può rappresentare una sintesi del processo su cui mi propongo di riflettere per cogliere il nucleo, il segreto che ciascuno di noi nasconde tanto gelosamente da arrivare a non sapere di possedere interiormente tutte le parti necessarie per modificare, progredire, migliorare e raggiungere un livello soddisfacente di vita o benessere, modificabili certo e in fieri. Anche in psicologia clinica, ambito di mia formazione di base, studiosi si sono interrogati su quali possano essere gli indicatori per parlare di benessere o addirittura guarigione e partendo dalla fine posso citare Marie Jahoda che parla di autostima, crescita personale, buone relazioni con gli altri, autonomia e controllo ambientale o anche Carol Ryff che elabora un modello multidimensionale di benessere psicologico, individuando sei variabili che vanno a comporre il tutto: la padronanza ambientale, la crescita personale, gli scopi nella vita, l’autonomia, l’accettazione di sé, le relazioni positive con gli altri. Come fare, quindi?
Open Your Mind: una ricerca personale e professionale
Mi focalizzerò su alcuni concetti che mi hanno colpito nel corso di questa mia ricerca personale e professionale partendo dalle origini del Coaching, come metodo (Wikipedia mi viene in aiuto per spiegare in cosa consista: comportamento di ordine razionale ai fini di una ricerca che definisce le regole e i principi nella procedura da adottare per il conseguimento di un’azione efficace). Timothy Gallwey ne “Il gioco interiore del tennis” introduce in modo molto illuminante, a mio avviso, una distinzione tra il Sé 1 e il Sé 2 per spiegare cosa succede quando siamo concentrati a fare qualcosa, quindi in ogni istante della nostra vita in ambiti svariati che implicano gradi differenti di complessità e di impatto emotivo. Il Sé 1 parla, giudica, critica, pensa, il Sé 2 fa e il sistema dovrebbe funzionare. In condizioni di impasse i due attori non sembrano collaborare, anzi il primo insinua il dubbio del fallimento, dell’errore, che peraltro è parte del processo di apprendimento, arrivando a screditare la nostra parte più orientata alla azione e condizionando in modo irrimediabile l’esito del processo.
Oltre a questo elenca gli elementi che, a partire dall’esperienza pratica dell’allenamento sportivo, considera fondamentali per raggiungere una alleanza tra le parti interiori citate: avere una visione precisa dei risultati da raggiungere, avere fiducia in sé stessi, imparare dagli errori senza giudicare. L’obiettivo è quello di raggiungere uno stato di concentrazione rilassata più funzionale attraverso l’osservazione che non abbia in sé presupposti o addirittura pregiudizi e che sia frutto di consapevolezza di ciò che si sta facendo, di ciò che si vuole. La consapevolezza in alcuni casi si raggiunge solo attraverso un reiterato processo di allenamento che ci consenta di focalizzarci sul processo mettendo in secondo piano giudizi, pensieri e critiche che con grande vivacità fanno capolino. L’osservazione permette di accedere ad un apprendimento naturale, così definito dall’autore e scoprire la nostra parte più orientata alla azione, fisica. Lasciare che l’attività venga fatta, concentrarsi senza pensare, stabilendo con se stessi un rapporto di fiducia e rispetto attraverso il riconoscimento delle capacità, visualizzando ciò che ci si propone di fare in modo libero, provando e provando, non fermandosi ad ogni reazione emotiva conseguente al risultato. Si succedono osservazioni e immagini di quello che si vorrebbe raggiungere, giochi di ruolo che permettono di fare l’attività con distacco perché si sta interpretando un personaggio, uno stile diverso magari da quello che ci è più familiare e che per forza dell’abitudine/ comodità adottiamo quotidianamente.
L’acquisizione di tecniche parte dal sentirle su se stessi, adattandole, usando la consapevolezza perché non emerga la parte giudicante che ognuno di noi ha a livelli differenti. Per modificare le abitudini si applica lo stesso metodo che non corregge, ma attraverso l’osservazione possiamo vedere a cosa serve quel comportamento, quella abitudine, quel groove o solco che si ripete. Come abbandonare una abitudine? Semplicemente introducendo nuove abitudini, prendendo spunto dai bambini, liberi completamente da schemi, che adottano nuovi comportamenti, gesti come frutto di una scoperta che rivela strategie più funzionali e perfino più divertenti. I passaggi per apportare dei cambiamenti sono quattro e consistono ne: l’osservare senza giudicare, stabilendo cosa cambiare (anche il cosa può non essere chiaro); l’immaginare il risultato desiderato; il credere al Sé 2 esplorando, provando senza sforzo, ponendosi domande, cambiando qualche piccolo particolare e provando l’effetto, le sensazioni, immaginando il cambiamento, visualizzandolo; l’osservare il cambiamento senza giudicare, provando, lasciando in modo disinteressato, senza pensare al risultato con pazienza e attenzione.
L’attenzione costituisce una facoltà di cui disponiamo tutti, ma in un processo di allenamento viene esercitata per focalizzare, permettendo al Sé 2 di emergere: il concentrarsi su particolari specifici e difficili da cogliere, l’allenamento alla sensibilità prestando attenzione al corpo nella attività che si sta svolgendo, ai muscoli, al ritmo, percependo il feeling, immersi nell’esperienza di quel momento unico e irripetibile. Concentrando l’attenzione noi raggiungiamo la consapevolezza che, come afferma l’autore, è attenzione focalizzata e quindi accediamo a dei livelli superiori di conoscenza. Come su un palco possiamo orientare la nostra luce interiore senza porci barriere rappresentate dai giudizi, focalizzando tutti gli elementi presenti nel qui e ora. La concentrazione si può perdere perché emergono ipotesi, pensieri su ciò che è stato e su ciò che dovrebbe essere e allora (come ci insegnano tecniche di meditazione e respirazione consapevole) si riporta l’attenzione in modo attivo sul presente, rilassandosi. Quando si prova questa esperienza sembra di accedere ad uno stato di estasi, ci si sta esercitando ad essere più consapevoli, a cogliere, sentire, vivere quel attimo.
L’eccellenza, l’espressione della potenzialità personale si raggiunge attraverso la mente libera mettendo in condizione il Sé 2 di esprimersi come è stato allenato a fare con determinazione e continuità.
Il rischio relativo alla competizione nel pensiero di Gallwey viene trattato in modo dialettico come il fenomeno del tutto o nulla: da una parte coloro che accecati dalla ricerca del successo rischiano di cadere in una spasmodica, alle volte “compulsiva” rincorsa che fa perdere di vista la varietà delle potenzialità personali, rappresentando l’unico modo per avere stima di sé, dall’altra coloro che rifuggono dalla competizione e non si mettono alla prova, rinunciando in partenza; qualcosa accomuna i due poli estremi, nello specifico entrambi hanno paura e sono guidati dal timore di non essere all’altezza. Cosa spinge il surfista a confrontarsi e aspettare l’onda più grande? Più grande è l’onda più si mette alla prova e scopre il proprio potenziale, le capacità che lo caratterizzano e, conclude l’autore, “il valore della vittoria è grande quanto il valore della meta raggiunta”, in altre parole è fondamentale il processo per raggiungere uno step e gli ostacoli servono per scoprire i propri limiti nel loro superamento. Quindi, la competizione viene ad assumere una nuova accezione nel senso di condizione per migliorare, mettere alla prova le proprie capacità, dare espressione alle potenzialità, non a caso nella ecologia di comunità il termine è connesso all’adattamento.
Giocare o in senso più ampio vivere implica impegno, al di là del risultato e il rapporto con se stessi secondo questa prospettiva cambia perché certo posso agire sulla mia determinazione, sul mio allenamento, ma non sulle condizioni esterne, sulla volontà delle persone che mi circondano e quindi il margine del controllo che posso esercitare si circoscrive, limitando anche l’ansia conseguente e/o il bisogno di controllo. Di fronte a condizioni di cambiamento ed incertezza è la stabilità interiore di chi non ha nulla da perdere che risulta essere la strategia più adattativa, quindi non è il consenso, l’approvazione esterna a rendere più forti e flessibili, bensi l’essere indipendenti, il prepararsi ad affrontare il cambiamento che può riguardare ambiti differenti della propria esistenza, l’accettare ciò che si è, essere presenti a se stessi, accedendo al “vero se”, vivendo appieno il momento presente, citando Gallwey l’ “essere noi stessi a dirigere i nostri pensieri”.
Giovanna Canziani
Psicologa psicoterapeuta coach professionista
Bologna
giocanziani@libero.it
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