Categoria: La conservazione del momento angolare

Categoria: La conservazione del momento angolare

La conservazione del momento angolare

Quando ho imparato ad andare in bici, non sapevo fosse la velocità a tenermi in equilibrio. Mio padre stava dietro di me, ma in realtà non mi sfiorava nemmeno. Continuava a ripetermi di pedalare, e io mi fidavo. Magicamente, la mia Saltafoss degli anni 70, un cimelio ereditato da mio fratello più grande, rimase in piedi. Incredibilmente, quella vecchia bici cominciò a mantenere l’equilibrio e a muoversi nella direzione in cui IO volevo andare. Più pedalavo, più la velocità aumentava, e con essa la mia felicità e soprattutto la fiducia in me stesso. Qualche istante dopo, la concentrazione si trasformò in un grido di pura soddisfazione: ce l’avevo fatta, avevo finalmente imparato ad andare in bici.

Quello che ancora non ho detto è che ci sono arrivato relativamente tardi: avevo sette anni. Di solito i bambini imparano a pedalare a tre – quattro anni, a 7 anni provano per la prima volta ad impennare. Ma io ero rimasto indietro. Un’altra cosa che non ho detto è che, qualche anno più tardi, la bici sarebbe diventata il mio secondo lavoro.

 

Oggi so che, nella bicicletta, il movimento delle gambe si trasmette alla ruota posteriore attraverso un meccanismo semplice: i pedali, la corona, la catena e il pignone si muovono all’unisono e mettono in moto il meccanismo. La rotazione delle gambe genera una spinta, che si trasforma in movimento, poi in velocità e infine in equilibrio. In fisica si chiama legge di conservazione del momento angolare, oppure “effetto giroscopio”.

Quando avevo sette anni, però, non pensavo a niente di tutto questo. Volevo solo imparare. Mi sentivo in ritardo rispetto ai miei compagni e desideravo recuperare il tempo perso, imparare il più velocemente possibile e dimostrare a tutti che potevo essere bravo anche io.

Quando mio padre mi disse: “pedala e tieni forte il manubrio”, non conoscevo ancora le mie vere potenzialità, i tentativi precedenti erano stati catastrofici. Quella volta però fu diverso, nel momento in cui quella bici iniziò a stare in equilibrio, qualcosa in me si accese. Quello che già sapevo fare era in corso, ma soprattutto, quello che “avrei” potuto fare grazie a quella scoperta diventò presto il desiderio più grande di un bambino di soli sette anni: volevo correre una gara di bici con i più grandi.

Sei anni più tardi quel sogno prese forma. Partecipai alla mia prima gara:  45 chilometri su e giù per colline e pendii. Per gareggiare avevo bisogno del consenso dei miei genitori, perché all’epoca i bambini non potevano competere con gli adulti e non c’erano molte gare per ragazzi della mia età. Ricordo ancora l’adrenalina prima della partenza: ero certo che avrei vinto. Avevo la magia e l’illusione dei miei 13 anni ancora da compiere, quella convinzione incrollabile che tutto fosse possibile.

Ovviamente, non vinsi. Ma quella gara fu solo l’inizio di una grande storia d’amore. La bici mi portò in giro per l’Italia, regalandomi avventure, luoghi e amici che ricordo ancora oggi.

 

Quello che faccio oggi c’entra molto con quella storia. Quando ho fatto il mio primo percorso di coaching non avevo idea di cosa fosse questa metodologia. Era un programma aziendale progettato per aiutare me e alcuni miei colleghi nella transizione di ruolo. Non saprei dire a che livello fosse la mia coachability all’epoca — forse, ripensandoci oggi, mi ero semplicemente detto: “ma perché no?”. Eppure, proprio come quando mio padre mi disse di pedalare e di tenere stretto quel manubrio, decisi di fidarmi… del metodo, del processo, del coach e soprattutto di me stesso. Intrapresi quel viaggio. Sorprendente allora, trasformativo qualche mese più tardi.

Riflettendo, vedo un filo rosso che collega quei momenti. Quando, a sette anni, imparai ad andare in bici, non avevo consapevolezza delle mie capacità (leggi potenzialità). Però, una volta trovato il punto di equilibrio, ciò che già sapevo fare si manifestò in modo potente dentro di me, e quello che avrei potuto fare si trasformò nel sogno più grande: correre una gara.

Anche con il coaching è stato così. All’inizio non sapevo cosa aspettarmi, ma quel percorso ha liberato possibilità che nemmeno immaginavo, trasformando in realtà progetti che sembravano lontani.

Come ho già detto, quella prima gara non la vinsi, ma quella competizione segnò l’inizio di qualcosa che mi portò a vincerne tante altre. Allo stesso modo, il mio primo percorso di coaching non mi portò subito in “vetta” ma fu l’inizio di una trasformazione profonda.

Quindi cos’è il coaching veramente? Cosa è stato per me ai tempi? e cos’è ora? Mi piace molto il parallelismo tra la bici e il coaching: sia la bici che il  coaching sono metafore del movimento, dell’equilibrio e della crescita. Così come in bici la spinta delle gambe si trasforma in velocità ed equilibrio, nel coaching il movimento interiore e la fiducia si traducono in scoperte e cambiamenti potenzialmente rilevanti. In entrambi i casi, si parte da un atto di fiducia e dalla volontà di mettersi in gioco, ed è lì che tutto comincia.

 

Ripensando sia alla bicicletta che al coaching, mi rendo conto di quanto fosse vero ciò che Timothy Gallwey disse sull’apprendimento naturale, lui parlava di osservazione, domande e feedback. Quando ho imparato ad andare in bici, non c’erano lezioni teoriche che mi spiegavano come evitare di cadere, quale velocità raggiungere per stare in piedi, quanto stretto dovessi tenere il manubrio. C’era mio padre che mi diceva di pedalare e io che mi fidavo. Osservavo più o meno consapevolmente i miei movimenti e quel drago impazzito a due ruote con quell’inutile cambio sul tubo obliquo che non funzionava più ormai da anni. Mi ponevo domande su come mantenere l’equilibrio e, passo dopo passo, ricevevo il feedback più autentico che ci sia: se cadevo, dovevo alzarmi e ripartire; se restavo in piedi, evidentemente avevo fatto qualcosa di giusto che dovevo solo ripetere.

Durante il mio primo percorso di coaching, imparai ad osservare me stesso e il contesto che mi stava attorno da un punto di vista diverso, ma pur sempre osservando l’orizzonte con i miei occhi. Ho iniziato a pormi domande importanti e a interagire con il mio io interiore in una dimensione di maggiore armonia. Con questo non voglio dire che sia stato un apprendimento lineare, piuttosto un processo di scoperta con le sue turbolenze, come si usa dire: alti e bassi. Ogni passaggio mi ha permesso di muovermi con più equilibrio e consapevolezza verso nuovi traguardi, ma, soprattutto, verso ciò che sono oggi e il lavoro che ho scelto di fare.

 

Oggi mi occupo di formazione che ho scoperto essere molto di più di un lavoro: è il luogo dove si incontrano la mia esperienza e la mia passione di stare dalla parte delle persone per scoprire e attivare il loro potenziale. Proprio come la bici che si avvia da un semplice movimento iniziale, anche nella formazione tutto nasce da un movimento, magari incerto, ma che col tempo trova il suo ritmo. Ogni persona che incontro nel mio lavoro porta con sé un equilibrio da ristabilire o una direzione da scoprire. Il mio ruolo è quello di accompagnare lungo questo viaggio, come un allenatore che tra i suoi compiti imprescindibili ha l’osservazione, la necessità di fare domande e di dare feedback, ma che allo stesso tempo si lascia sorprendere dal potenziale di chi ha davanti, lasciando quello spazio vitale necessario per l’auto-apprendimento.

È vero, formare le persone è diverso dal fare coaching, ma se posso concedermi una licenza interpretativa, io trovo ci sia almeno un punto in comune, soprattutto nella finalità del metodo. Entrambi i percorsi mirano a favorire consapevolezza, miglioramento, talvolta trasformazione. Mettono le persone nella condizione di scoprire e utilizzare nuove risorse. Nella formazione il processo di apprendimento avviene da uno stimolo esterno, nel coaching è tutto già lì, nella persona, in attesa di essere sbloccato, attivato, utilizzato…consapevolizzato.

 

Oggi, a distanza di qualche mese da quel percorso di coaching fatto da coachee, ho compreso il segreto di questo “movimento”. Ho capito cosa accade quando le domande che poni a chi hai di fronte riescono a sbloccare qualcosa di profondo, innescando un processo interiore che responsabilizza e spinge a guardare lontano, proiettandosi verso nuove possibilità. Ho capito le potenzialità di un metodo in grado di toccare l’anima delle persone, ma anche gli aspetti più razionali che guidano il pensiero umano. Ho sperimentato cosa significa scrivere un obiettivo su un foglio per poi osservarlo qualche minuto più tardi, con occhi nuovi e un livello di consapevolezza rinnovato. In questo viaggio di apprendimento, Franco, Alessandro, Silvia e Matteo mi hanno fatto scoprire il meccanismo che permette a questa “bici” di rimanere in equilibrio e ne sono rimasto affascinato.

Che sia come nella conservazione del momento angolare che teneva in piedi la mia bici? In questo principio il “momento di inerzia” è  rappresentato dai blocchi mentali, le resistenze o le abitudini consolidate, mentre la “velocità angolare” rappresenta il ritmo del cambiamento, la crescita, l’avanzamento verso un obiettivo. Se si riducono le resistenze (momento d’inerzia), il progresso accelera…

…proprio come quel giorno in cui ho imparato ad andare in bici.

…proprio come quel momento in cui ho capito cos’è il coaching e dove ti può portare.

 

 

Gianfranco Camelliti

Formatore e Consulente, titolare di @Action2Learn | Coach professionista

Monza

Gianfrancocamelliti.A2L@gmail.com

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