
Il ‘Triangolo Drammatico’ nella ‘Geometria Relazionale’ tra Coach e Coachee
Tra le varie “forme” che può assumere la Relazione tra Coach e Coachee nel corso di una sessione, vi sono dinamiche comportamentali che possono attivarsi in maniera “nascosta”, o meglio, sembrano palesarsi attraverso gesti e parole, quando invece mirano a determinare una specifica modalità di rapporto tra Coach e Cliente: “[…] la geometria della relazione coach-coachee, l’autodeterminazione e l’assunzione di responsabilità […] sono tre concetti cardine e di assoluta importanza per un processo efficace di coaching che, con la delega, vengono messi fortemente a rischio” (Pannitti, Rossi, 2012).
Dall’esperienza personale, la simmetria interattiva tra Coach e Coachee può prendere concretezza “dopo l’avvio lavori” o quando “si è costruito un certo feeling”; nel primo caso, mi riferisco a quei momenti nei quali, affrontate le sessioni d’incontro iniziali, il Cliente ha preso confidenza con il metodo, compreso “il come si fa” e, soprattutto, trovata la modalità espressiva a lui più consona, adatta e confortevole nel relazionarsi con il Coach. Nel secondo caso, faccio invece riferimento agli scambi interattivi caratterizzati da “[…] un processo di esplorazione, di scoperta e di costruzione di consapevolezza comune” (Pannitti, Rossi, 2012), dove l’apertura, la riflessione e il mettersi in discussione del Coachee rivela un progressivo sviluppo della relazione, co-adiuvato dalle domande nonché dalla presenza del Coach.
Di contro, nel corso di una sessione, possono presentarsi momenti particolarmente intensi che mettono alla prova la capacità di autodeterminazione del Cliente, creandogli dubbi, blocchi e chiusure; tali situazioni non solo possono destabilizzare la lucidità del Coachee ma anche creare i presupposti per mettere in atto tentativi di delega nei confronti del Coach. Di conseguenza, “[…] mano a mano che le convinzioni si radicano e si consolidano nella mente, la selezione dei dati/fatti si restringe e diventa sempre più focalizzata e direzionata inconsciamente a confermare la propria interpretazione della realtà […]” (Pannitti, Rossi, 2012).
I meandri della “chiusura mentale” possono alterare la relazione tra Coach e Coachee, dando adito a dinamiche proiettive alimentate da rabbia, frustrazione e paura o, più semplicemente, dalla difficoltà a rispondere a una domanda che “tocca” determinate corde, la cui risonanza non genera nel Coachee un silenzioso spazio riflessivo, bensì una sorta di “crisi” inaspettata, verso la quale, inizialmente, può reagire con fastidio, risentimento o con un atteggiamento difensivo che converge sul Coach sotto forma di delega.
Trovo situazioni di questo tipo vicine alle dinamiche che, nell’Analisi Transazionale, scaturiscono dalla messa in atto dei ‘giochi psicologici’, da intendersi, in sintesi, come scambi finalizzati a generare stati d’animo negativi, accompagnati da convinzioni e pensieri della medesima polarità su se stessi, gli altri e la propria realtà. Al di là delle varie tipologie di giochi presentati dagli studi di settore, in merito al processo di delega ma anche alle disfunzioni nella relazione tra Coach e Coachee, ho trovato numerose analogie tra le sfaccettature di tale dinamica e il modello sociale del ‘Triangolo Drammatico’ di Stephen Karpman (1968), che costituisce poi il centro intorno al quale si dipanano i giochi psicologici analizzati da Eric Berne (1910/1970).
A ogni angolo della figura vi è un ruolo (Persecutore, Salvatore, Vittima) che, all’interno di una relazione interpersonale o scambio comunicativo, si caratterizza per un aspetto di svalutazione nei confronti di sé e del proprio interlocutore. L’atto del rivestire uno o più ruoli comporta il divenire “un giocatore” di una dinamica negativa, finalizzata a creare attrito, confusione e conflitto nella risoluzione di problemi o nella gestione di una relazione.
Il Persecutore si può individuare in un atteggiamento da “è tutta colpa tua!”, caratterizzato in genere da toni accusatori, critiche e giudizi negativi; al di là delle connotazioni specifiche, questo ruolo si pone in una posizione relazionale “top/down” molto marcata, per svalutare l’altro e deresponsabilizzarsi nei confronti delle proprie azioni. L’obiettivo è di trovare nell’interlocutore elementi che, sotto forma di parole, espressioni e comportamenti consentano, a chi mette in atto questa dinamica, di riversare sull’altro reazioni a supporto di accuse e giudizi personali più o meno espliciti; il “giocare al Persecutore” si può ben applicare a entrambi i protagonisti della relazione di coaching, con due diverse modalità di espressione e gestione dello scambio.
Il Coach può trasformare le domande ‘stimolo’ in uno strumento di ‘provocazione’, velando critiche o giudizi impliciti sotto forma di riflessioni ad alta voce, finalizzati più a instaurare un legame valutativo, e quindi dipendente, nei confronti del Cliente, non tanto per generare in lui una reazione, bensì per svalutarne l’autonomia decisionale o attuativa. In questo modo, il Coach “macchia” la propria professionalità, ponendosi come giudice del disagio di cui il Coachee è portatore, provocando sensi di colpa, stati d’ansia o blocchi che tendono a incanalare il Cliente su pensieri negativi, alimentando un concreto stato di inadeguatezza.
Il Coachee, a sua volta, può rivestire il ruolo di Persecutore in quei momenti in cui, faticando a trovare un senso o uno spiraglio al suo problema, vive con frustrazione il suo disagio, per cui può canalizzare sul Coach tentativi di delega manipolatoria (“…ma l’ultima volta che ci siamo visti, ero convinto che tu intendessi di fare in quel modo, per cui io…”, “…possibile che tu non mi dica mai se faccio bene o male!? Guarda che, prima o poi, mi devi dare un feedback!”, “Lo sapevo, ho fatto esattamente come ci siamo detti, non è cambiato nulla e mi ritrovo di nuovo da capo!”). Il Coachee non accetta di mettersi in discussione, o meglio, sta iniziando a prendere consapevolezza di un suo modo di vedere la situazione in maniera diversa e questo può generare una sensazione di “vuoto da riempire” che, a volte, è più semplice delegare al Coach che cercare di gestire in prima persona.
Il Salvatore si può individuare in un atteggiamento da “lascia che ti aiuti!”, caratterizzato in genere da una spinta interiore a “salvare” l’altro, onde evitare di nutrire il proprio senso di colpa nel non essere riuscito a portare a termine una personale azione messianica. Il focus del ‘giocatore’ che riveste tale ruolo è concentrato sui bisogni dell’altro, quale persona “da salvare da se stessa” perché carente di risorse, che non ha e non può avere la capacità di farcela da sola, per cui “deve” necessariamente aver bisogno di aiuto. Come il Persecutore, anche il Salvatore si pone al di sopra delle parti, il cui obiettivo non è però accusare o puntare il dito contro l’altro, bensì di offrire “un supporto”, partendo dalla soggettiva (ed errata) convinzione che la persona a cui si rivolge non abbia alcuna autonomia o libera capacità d’azione.
Il Coach rischia di distorcere la propria finalità professionale, perdendo il focus sul processo esplorativo basato sul reciproco scambio per concentrarsi sul Coachee, quasi a trasfigurarlo in una sorta di “paziente” di cui prendersi cura e da assistere di sessione in sessione. Pertanto, le domande, anziché venire formulate con l’intento di permettere al Cliente di riflettere, ascoltarsi e capire come sta vivendo il suo disagio, possono diventare un inquietante strumento “diagnostico” in mano al Coach, il cui obiettivo è di confermare “il quadro clinico” del “paziente”, protraendo “il periodo di analisi” in una fitta rete di interpretazioni di taglio più o meno psicologico.
Il Coachee, in questo caso, può ben “stare al gioco”, sentirsi falsamente protetto all’interno di una circolarità viziosa nella quale resta “inguaribile” e dove le sue risposte non sono il risultato di un sguardo (auto) riflessivo sul problema personale. Anzi, ciò che viene trasmesso dal Coachee con le parole e nei gesti può divenire una conferma alla “diagnosi” fatta dal Coach il quale, oltre a rafforzare un quadro d’insieme già contaminato dalle sue proiezioni, idee preconcette o interpretazioni, non fa che alimentare la propria immagine salvifica e “l’abuso di potere” che il ruolo gli conferisce, tradendo il mandato professionale di cui è portatore. Di conseguenza, i tentativi di delega da parte del Cliente sono quasi giustificati, nel senso che si instaurano perfettamente nella dinamica del gioco attivato (“…ecco, poi mi dirai tu se il mio ragionamento è pertinente…”, “…spero di aver compreso bene la domanda e di averti risposto a modo, dimmi tu se sono stato esaustivo…”, “…ma secondo te, si tratta di una situazione risolvibile o meno?!”). In merito, può accadere che il raccontarsi del Coachee sia proprio funzionale alla formulazione di un tentativo di delega, rinforzando in questo modo la dipendenza del Cliente dal Coach.
La Vittima si può individuare in un atteggiamento da “povero me!”, caratterizzato in genere da incapacità decisionale, sfiducia, elevata fatica ad assumersi responsabilità e ad avere una visione positiva nell’affrontare i problemi, inibendo un costruttivo processo di autodeterminazione: “[…] la posizione di impotenza della Vittima ha comunque i suoi vantaggi secondari. Essa può esprimere il suo potere proprio ingaggiando chi a questo potere è sensibile e lanciando sotterraneamente la sfida ‘vediamo se sei capace di aiutarmi’, pronta alla conclusiva dimostrazione: ‘nessuno è in grado di aiutarmi’”(Magrograssi, 2005). Tale ruolo comporta una forte svalutazione di se stessi, e “chi gioca a fare la vittima” ha bisogno di coinvolgere nella sua dinamica o un Persecutore, sul quale scaricare il proprio malessere al fine di ricevere comunque un riconoscimento, sebbene negativo e che confermi il suo sentirsi rifiutato, o un Salvatore, verso il quale proiettare la sua richiesta di aiuto per riuscire ad agire, sempre in maniera dipendente.
Il Coachee può attraversare un momento di forte coinvolgimento emotivo, perdere lucidità o incanalarsi in ragionamenti dai quali fatica a uscire per poi rivolgere al Coach, più o meno indirettamente, una richiesta di attenzione, sotto forma di delega, che lo sollevi dal dover affrontare il proprio disagio in maniera responsabile (“…è una situazione assurda e più ci penso e meno so cosa fare, ho proprio bisogno di un consiglio…”, “a pensarci, mi viene una rabbia irrefrenabile, a te non darebbe fastidio una cosa del genere?!”, “…lasciamo stare questo punto, è un tasto dolente, inutile starne a discutere, non c’è verso, dai, credo lo sappia anche tu…”). Sentimenti o stati d’animo difficilmente controllabili o convinzioni piuttosto radicate nella persona possono determinare uno spostamento di focus “dal Sé del Coachee al Sé del Coach”, finalizzate a coinvolgere quest’ultimo in situazioni che lo spingano a farsi carico di una delega inopportuna. Ed è proprio in tali momenti che si apre il bivio tra “l’aderire al gioco”, o meglio, il “farsi agganciare” dai tentativi del Cliente e il rimandare al mittente una consegna così delicata che sancisce spesso la traccia di un’apertura alla consapevolezza.
Il Coach, di fronte a un tentativo di delega di “tipo persecutorio”, se non gestito in modo adeguato, potrebbe mettere in atto comportamenti difensivi tali da alimentare, senza volerlo, gli stati d’animo negativi che il Cliente sta scaricando su di lui, accettando in maniera implicita di “giocare” alle condizioni imposte dal Coachee stesso. Al contrario, l’invito ad accettare una delega di “tipo salvifico” potrebbe apparentemente gratificare la professionalità del Coach che, nel momento in cui si dovesse far carico della responsabilità del Coachee, oltre a “entrare nel gioco”, vanificherebbe il suo ruolo e il relativo mandato.
Senza scendere in ulteriori approfondimenti sul Triangolo Drammatico, ho trovato utile il riferimento applicativo a questo modello in quanto, da un lato, permette di identificare delle dinamiche nascoste nella Relazione che potrebbero generarsi in particolari momenti del racconto del Coachee e, dall’altro, allarga la visione stessa sul tema della delega, senza per questo dover affrontare l’argomento da un punto di vista specificamente psicologico.
Federico Polidori
Training Specialist, Trainer, Life Coach
Cologno Monzese (MI)
federicom18@libero.it
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