
Il Coaching e le Neuroscienze
Le neuroscienze rappresentano lo studio scientifico del sistema nervoso ed includono l’anatomia del cervello e le sue funzionalità. La comprensione di cosa succede ad una persona durante un processo di coaching, e come quest’ultimo sia efficace, ricalca in modo evidente il funzionamento del nostro cervello.
Al di là di quello che si è sempre sostenuto e della bellezza del concetto di maieutica, che rimane un passaggio fondamentale del nostro lavoro e del pensiero umano, le neuroscienze oggi aggiungono un valore scientifico al coaching spiegando come funziona il processo di cambiamento del nostro cervello.
La maggior parte delle persone si rivolge ai Coach per creare cambiamento e, in definitiva, per trasformare il modo in cui pensano, si comportano, si esibiscono, interagiscono con gli altri e affrontano il proprio lavoro e la propria vita.
Quindi per essere ancora più efficaci dobbiamo capire come il cervello supporta il cambiamento e la trasformazione.
I neuroscienziati hanno confermato ciò che istintivamente sappiamo: un cambiamento trasformativo e duraturo è più difficile di quanto pensiamo. Partiamo da un punto fondamentale: la nostra mente è largamente ostile alle novità. Questo perché il cervello si avvale di strutture neurali automatizzate per assicurare la sopravvivenza ed il contenimento del dolore, e si affida per questo alla velocità e alla ripetizione. Così facendo si imparano facilmente nuovi comportamenti che non entrano in conflitto con abitudini cognitive ed emotive già consolidate. Quando però il cambiamento incide su situazioni in cui la mente non ha esperienze, ci troviamo di fronte ad un muro difficile da superare.
Perché il cambiamento è così difficile?
Il cambiamento è un aspetto strutturale del nostro cervello, impegnato quotidianamente a gestire due programmi antitetici: da un lato l’imperativo del minor sforzo possibile e del mantenimento dell’omeostasi, dall’altro l’esplorazione e la ricerca del nuovo e la previsione del futuro (Gazzaniga, Ivry, & Magnun, 2015).
Cambiare, adattarsi all’ambiente, è senza dubbio uno degli atteggiamenti più importanti per la sopravvivenza e l’evoluzione della specie umana e mai come oggi le sfide che dobbiamo affrontare richiedono forme di pensiero diverse per gestirlo. Tuttavia, sappiamo che, nonostante il cambiamento sia un comportamento fondativo della sopravvivenza, il nostro cervello non lo apprezza. La nostra mente ama avere tutto sotto controllo con le informazioni necessarie per poter prevenire le minacce e prendere decisioni rapidamente. L’incertezza genera nel nostro cervello una sorta di messaggio di errore e uno stato di allerta e difesa immediato che ci fa ricorrere ai meccanismi di difesa più primitivi: attacco, fuga e congelamento (freezing) (Hsu, Bahtt, Adolpdhs, Tranel, & Camerer, 2005). Si attiva, quindi, il circuito della minaccia attraverso gli ormoni dello stress, cortisolo e adrenalina, che ci focalizza sul pericolo, concentra le energie per la possibile difesa e riduce le risorse cognitive ed emotive a disposizione per fare tutto il resto, tra cui sicuramente accogliere il cambiamento e l’innovazione (Balconi, Falbo, & Conte, 2012). L’incertezza distorce anche la nostra visione delle minacce e può farle sembrare peggiori di quello che sono in realtà. Quando ci sentiamo insicuri, abbiamo maggiori probabilità di aspettarci il peggio e questo rende l’incertezza ancora più stressante (Kahneman, 2013). Abbiamo bisogno di un “contenitore” che conservi ciò che ci è conosciuto e familiare e di creare schemi routinari che non richiedono più l’uso della coscienza vigile (Cocco, 2014). Puntare alla trasformazione effettiva, non quella millantata, per il nostro sistema nervoso è, quindi, spesso un onere che non siamo disposti ad affrontare e che richiede grande disciplina (Becker & Cropanzano, 2010). Ecco perché, per esempio, tutto ciò che è ricorsivo e seriale diventa fisiologicamente necessario per rassicurare e aiutare l’individuo a costruire “il frame” nel quale inserirsi, oltre a ridurre la necessità di vigilanza e quindi di energia mentale (Slovic, Finucane, Peters, & MacGregor, 2004).
Secondo alcuni importanti e recenti studi sulla Neuroplasticità condotti e pubblicati da International Reserarch Center for Cognitive Applied Neuroscience sulla capacità del cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza, quattro sono i fattori necessari al fine di ottenere cambiamenti strutturali a livello di comportamenti:
- È fondamentale conoscere quello che sta accadendo nel proprio contesto e il cambiamento necessario
- Volontà. Senza il desiderio di cambiamento, senza che il cambiamento sia voluto, non sarà mai possibile predisporsi ad esso.
- Consapevolezza. L’acquisizione della consapevolezza rispetto ai progressi che si stanno facendo è fondamentale per comprendere come muoversi, come procedere e cosa correggere.
- Per acquisire (o per eliminare) un nuovo schema neuronale serve tempo. E’ quindi necessario un lungo periodo, un allenamento continuo.
In effetti, i coach aiutano le persone ad aumentare la loro densità di attenzione attraverso domande, esplorando le intuizioni del coachee, creando opportunità per riflettere, chiedendo impegno e responsabilizzando i coachee, in un periodo di tempo tale da consentire un allenamento del coachee al fine di favorire lo sviluppo di nuove abitudini e nuovi schemi neuronali.
Implicazioni per il Coaching
Non siamo consapevoli delle tante abitudini che abbiamo nell’interazione con le persone, nella gestione di riunioni, nella comunicazione e in tutte le altre attività della nostra routine quotidiana. La vera trasformazione richiede la creazione di nuovi circuiti nel cervello, che utilizza la corteccia prefrontale. Questo processo avviene lentamente e richiede uno sforzo e un’attenzione intensi poiché si stanno letteralmente “scavando” nuovi percorsi nel cervello. Sia il coach che il coachee devono avere pazienza e perseveranza affinché il processo di trasformazione funzioni.
Il Coaching è quella tecnica che, basandosi sulla motivazione intrinseca, permette di trovare strategie e strumenti, favorire la crescita personale e, proprio come nello sport, raggiungere obiettivi. L’obiettivo è tanto semplice quanto attraente, in quanto favorisce il percorso di un cliente da uno ‘stato attuale’ ad uno ‘stato desiderato’ attraverso una serie di colloqui in cui la fanno da padrone ascolto attivo e domande aperte.
Così come nella fase della crescita ciò che impariamo si fissa nei circuiti neuronali, i neuroni creano continuamente nuove ramificazioni e moltiplicano i contatti tra loro secondo il fenomeno della ‘plasticità’, che appunto si attiva quando impariamo qualcosa di nuovo e rende il cervello giovane. Vivere in un ambiente ricco di stimoli e interagirvi fa crescere anche il nostro cervello e funziona come una vera e propria palestra. Più connessioni e maggiore flessibilità ci aiutano ad imparare più cose nuove e a mettere in pratica più efficacemente nuove abilità. Dato che il processo di coaching lavora sull’acquisizione o il recupero di competenze, si intuisce come questo metta in moto un circolo virtuoso cerebrale che è avido di novità.
Basti pensare che le nuove connessioni sono stimolate dall’apprendimento di nozioni nuove, dallo sforzo necessario ad applicare e dalla ‘pratica deliberata’, un processo proposto da Anders Ericsson che prevede un’attività volontaria, continua e che prevede livelli crescenti di difficoltà. Ecco perché al coachee si sottolinea sin dal primo incontro la necessità che si prenda la responsabilità in prima persona, monitorando il livello di motivazione a perseguire quell’obiettivo. Fa parte di questo filone di teorie la regola di Donald Hebb la quale sostiene che ’se due neuroni connessi tra loro si attivano ripetutamente durante un certo evento, la loro connessione diventa più stabile e l’evento viene ricordato in maniera più efficace. Insomma: se un gruppo di neuroni si attiva ripetutamente si verificano cambiamenti strutturali che li rinforzano e rendono l’apprendimento più facile (‘neurons that fire together, wire together’), che ha il suo cuore nella parola ‘ripetizione’. Ripetere un comportamento lo sedimenta nel cervello: ecco come un nuovo comportamento virtuoso sostituisce un’abitudine nociva. E mentre lavoriamo con il nostro coachee, stiamo contribuendo a creare nella sua testa nuovi modelli comportamentali.
“Definire obiettivi, creare connessioni, diventare più consapevoli, cercare scoperte e agire – le ‘cose’ del coaching – sono parallele a ciò che i neuroscienziati ci dicono su come funziona il cervello”. Allenare con il cervello in mente, David Rock e Linda J. Page
Piergiorgio Simpatico
Responsabile Formazione e Sviluppo Risorse Umane – Business & Life Coach
Padova
piersimpa@gmail.com
Bibliografia
Michela Balconi, Bruna Nava, Emanuela Salati (2020). Il neuromanagement tra cambiamento, tecnologia e benessere
Angelo Bonacci. Articolo su www.prometeocoaching.it
Focus (2017). Articolo su Come funziona il cervello
Leonella Cardosi ( 2020) intervista su http://blog.doyoucoach.com/
Johann Rossi Mason (2020). Articolo su https://www.huffingtonpost.it/
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