
Il Coaching “alla Finestra”: Johari nella relazione tra Coach e Coachee
Studiando e rileggendo “L’essenza del Coaching” (Pannitti, Rossi, 2012), nella ricca sezione dedicata a ‘gli strumenti di interazione del Coach’, vi è ben spiegata l’applicazione del modello della ‘Finestra di Johari’ al feedback d’ascolto; conoscendo la matrice in ambito formativo, già durante il corso mi aveva particolarmente incuriosito la trattazione del modello nella pratica del Coaching, proprio come strumento operativo da poter spendere a livello professionale. Maturata esperienza nell’ambito e tornando sul tema, mi sono reso conto, ancora di più, delle effettive potenzialità della matrice, “[…] anche per rappresentare non solo il contenuto delle cose che diciamo verbalmente (comunicazione logica), ma anche tutti quegli aspetti comunicativi legati alla comunicazione analogica paraverbale e non verbale” (Pannitti, Rossi, 2012).

Finestra di Johari
Noto a Sé, noto agli Altri (quadrante Aperto)
Si tratta dell’area in cui rientrano, prima di tutto, “il come” sia il Coach sia il Coachee si presentano l’un l’altro, a partire dalla sessione zero, proseguendo nel processo conoscitivo che avrà poi un suo sviluppo e, di conseguenza, un dipanarsi tra i quattro quadranti. Si tratta quasi di uno specchio immediato in cui Coach e Cliente riflettono la loro immagine, indicativamente “nota”, ovvero relativa anche al proprio aspetto fisico, in cui identificare quel “volto conosciuto” che, dal primo incontro in avanti, porta ad associare un viso a un nome, e una Persona a una storia. Oltre alle caratteristiche fisiche, il quadrante comprende poi l’insieme di comportamenti, gusti, motivazioni e sentimenti che non solo hanno generato l’incontro tra Coach e Coachee, ma anche le caratteristiche personali che permettono di dare avvio al percorso di Coaching e alla reciproca conoscenza.
All’interno di tale scenario, la dinamica de “il noto a sè, noto agli altri” si gioca da due punti di vista differenti: per il Coach, si tratta di spendere e di dichiarare la sua professionalità sulla base delle competenze di cui è portatore, per entrare in sintonia con il Cliente e farsi ascoltatore del bisogno dell’Altro, mentre, per il Coachee, di mettersi in gioco, condividendo, a modo suo, i motivi, il disagio, i gap di cui è “a conoscenza” e che ha deciso di raccontare a un professionista con il quale ha avviato un certo tipo di rapporto interpersonale.
Dall’esperienza personale, questo quadrante aiuta a definire due ambiti di processo: il primo è l’avvio della relazione di Coaching, o meglio, la comune partenza dal porto verso il mare aperto; ci siamo incontrati sulla terraferma per un motivo, il Coachee ha espresso il suo volere, desiderio o necessità di intraprendere questo viaggio con “quel” Coach, per professionalità, competenza o anche solo per simpatia o perché gli è stato segnalato da altre persone.
Quindi, l’avventura può iniziare: il “noto a sé, noto agli altri” da parte del Coach è l’essere presente sulla nave, forse nei panni di capitano, timoniere o mozzo, questo non si può sapere, e di aver comunque accettato di partecipare all’impresa, mentre per il Cliente si tratta di salire a bordo (con o senza valigia è irrilevante), sapendo che, nel corso del viaggio, avrà una sorta di “compagnia”, un qualcuno di identificato con cui condividere “un qualcosa” per affrontare o superare al meglio quanto andrà svelandosi nel corso dell’avventura.
Il secondo ambito di processo per il quale il quadrante “aperto” risulta utile come riferimento è il tema di cui è portatore il Coachee, o meglio, l’ambito intorno al quale gravita il disagio, la preoccupazione, il problema; si tratta del (macro) argomento su cui il Cliente ha intenzione di lavorare, agire, cambiare, la matassa principale dalla quale si potranno poi snodare fili al momento sconosciuti e direzioni imprevedibili.
Si è a un livello “superficiale” della questione: il Coachee sta muovendo i suoi primi passi, ma non è ancora in mare aperto; si è lasciato il porto alle spalle, si sta ambientando, riconosce i principali elementi del paesaggio circostante e sta imparando a descriverli a colui che lo sta ad ascoltare. Il Coach, da parte sua, inizia a farsi un’idea del racconto del Coachee e a inquadrare la situazione sulla base di quanto viene detto (e non!), per rendersi conto di quali aspetti il Cliente sta parlando.
In termini di gestione della delega, in questo quadrante, i tentativi possono risultare come una richiesta di conferma il cui obiettivo, da parte del Cliente, è quasi un voler capire “se sta seguendo le regole giuste” nel raccontarsi, ovvero, se il suo esprimersi è corretto rispetto a un processo che sta avendo inizio ma che “vive di vita propria”, senza valutazioni di sorta lungo il cammino (‘…ecco, non so se hai presente il concetto: mi fai capire se è corretto quello che dico?!’; ‘spero di essere chiaro nel dirti questa cosa, sai, ci sto pensando adesso, ma dimmi tu se è il caso di parlarti di questo aspetto o meno…’). Per il Coach, la restituzione della delega è come un rimando al far passare al Coachee il (meta) messaggio di “stare tranquillo”, di procedere liberamente nel suo racconto e nelle relative riflessioni, che il viaggio è appena iniziato e il Cliente può cimentarsi al timone, sdraiarsi sul ponte e prendere il sole, scendere in cabina a fare un sonnellino, senza preoccuparsi di dover rendere conto al suo “compagno di mare” di regole o valutazioni da cui (di) pendere.
Non noto a Sé, noto agli Altri (quadrante Cieco):
Si tratta dell’area in cui la nave ha decisamente abbandonato il porto e si è già fermata all’esplorazione di qualche isolotto lungo la rotta; “la conoscenza” tra Coach e Cliente si approfondisce e “l’oggetto del discutere” inizia ad avere una dimensione più allargata e sfaccettata rispetto al livello puramente contenutistico del problema.
Ciò che il Coachee non sa su di lui, o meglio, quello di cui (ancora) non si rende conto, inizia a prendere forma, più a livello di percepito che di effettiva consapevolezza, dando modo al Coach di “vedere”, attraverso le sue domande, il crearsi di una “rotta” introspettiva, forse solo delle tracce, ma “qualcosa si sta muovendo”, qualche barlume di luce inizia a trasparire dalla “cecità” più fitta.
Da un incontro all’altro, si evince questa dinamica in maniera palese nei momenti in cui il Cliente esordisce in sessione con un “ho riflettuto molto dall’ultima volta che ci siamo visti e…” oppure “sai che, nell’elaborazione del compito di allenamento, mi è venuto in mente che…” e forme similari, che, pur facendole rientrare nel quadrante Cieco, rappresentano solo l’aspetto finale, o meglio, lo sbocciare del fiore che si è visto germinare durante l’incontro stesso.
Dal mio personale punto di vista, è proprio in sessione che il Coach ha modo di rendersi conto dell’emergere di quel “non noto a Sé” con cui il Coachee inizia a scarabocchiare un album da disegno che fino a poco tempo prima era ancora bianco. Il suo “noto agli Altri”, che nello specifico è rappresentato dalla figura del Coach, è il problema di cui è portatore, che sta condividendo al fine di presentare il racconto nella forma più chiara possibile, fiducioso nel fatto di rendere “noto” al Coach ciò che sta attraversando.
Dall’altra parte, il Coach non sa come viene percepito e quello che non sa su di Sé trova riscontro nelle risposte che il Coachee fornisce alle sue domande; il Coach non può sapere che tipo di impatto avrà il suo quesito, o meglio, è consapevole del suo ascolto rielaborato in domanda, ma non ha idea del tipo di reazione del Cliente che, nel rispondere, “darà forma” a ciò che il Coach non sa su di Sé.
Di conseguenza, al Coachee è noto ciò che sta facendo il Coach, a livello di scambio dialogico tra le parti, e quest’anima della relazione costituisce l’involucro, il contesto da preservare perché si mantenga il gioco di equilibrio tra ciò che il Coach non sa su di Sé, ma che si vede restituito sotto forma di risposta, e che il Cliente conosce, in termini di metodo messo in atto da un professionista nella “cura” che dimostra verso il proprio Cliente.
In sostanza, il quadrante Cieco è la zona in cui si animano i percepiti di entrambe le parti, dove il Coachee inizia a scoprirsi, a Sé e davanti agli occhi del Coach, mentre quest’ultimo si mette in gioco sfruttando al meglio le proprie competenze nello stimolare il suo Cliente a “prendersi per mano”, guardarsi dentro e iniziare a cercare. Le risposte e le riflessioni del Coachee fungeranno al Coach da bussola di orientamento non solo per capire dove si sta dirigendo il Cliente ma anche per avere un termometro immediato sugli effetti “di cosa e di quanto” il Coach ha pensato di utilizzare come stimolo riflessivo.
In termini di gestione della delega, in questo quadrante, i tentativi possono apparire tendenzialmente “rassicurativi”; il Coachee “sta prendendo il largo” da solo, si è staccato dalla nave o è in esplorazione su qualche nuova isola, per cui potrebbe correre il rischio di avere qualche “smarrimento” (‘…che dici, lo trovi un buon ragionamento?!’; ‘secondo te, sono sulla buona strada?’; ‘come la definiresti una situazione del genere?’). Il modo di ragionare, le emozioni che trapelano da gesti e parole, gli sguardi più lunghi o concentrati denotano un lavoro concreto di riflessione che, a volte, può sfociare nel tentativo di trovare un supporto da parte del Coach, quasi a volerlo fare partecipe del proprio progredire.
Noto a Sé, non noto agli Altri (quadrante Nascosto):
è l’area che definisco bonariamente “delle maschere”, ovvero di ciò che sia il Coach sia il Coachee conoscono di loro stessi e, proprio in virtù di tale sapere, tengono per sé; è il quadrante del “nascosto”, del “privato”, della voce interiore che parla nella testa nell’evolversi della relazione.
Da parte del Cliente, l’entrare o l’attraversare tale area corrisponde a quei momenti di forte intensità emotiva o di profonda riflessione in cui si accorge che quanto sta raccontando ha toccato una corda interiore particolarmente delicata e quindi è meglio sviare, ammorbidire con una risata nervosa perché nell’immersione si è visto qualcosa sul fondo che fino a oggi non si era ancora visto oppure non si era ancora consapevoli di poterlo vedere da un’altra angolazione. Ciò che “si sa su di sé” comprende anche il modo in cui ci descriviamo, e quindi raccontiamo, all’altro; si tratta di una dimensione personale, del proprio modo di vedersi e conoscersi che, in un percorso di Coaching, va inesorabilmente arricchendosi, perdendosi, scoprendosi di nuove percezioni e stati d’animo.
Dall’esperienza personale, ho visto pilastri di sicurezza e autostima crollare in pezzi di fronte alle maschere in superficie che i Coachee indossavano nel corso delle prime sessioni, così come il caso di un indescrivibile smarrimento, “noto” al Cliente sotto l’etichetta di un costante approccio alla vita e alle situazioni di cambiamento, che ha trovato un senso al proprio agire “…al di là di come non mi sarei mai aspettato di dover rivedere le mie convinzioni, ma davvero forti, eh!”. Ritengo che andare oltre la porta di ciò che il Coachee (trat)tiene per sé sia molto difficile, in quanto si tratterebbe di addentrarsi in meandri da cui il Cliente stesso sarebbe il primo a starne lontano, a meno che non sia proprio lui, nel suo intimo, a voler attraversare quella soglia che, per motivi prettamente personali, decida e senta di varcare.
Da parte del Coach, invece, “il sapere ciò che sa” in rapporto a quanto appartiene a un’area più privata è strettamente interconnesso a quanto, di rimando, sperimenta il suo Cliente nel corso della sessione; oltre alla competenza professionale, il Coach, di minuto in minuto, si trova a dover gestire risposte, reazioni e stati d’animo che possono d’istinto attivare paure, difese, ragionamenti e interpretazioni che vanno assolutamente taciuti e consapevolmente arginati “dietro le quinte”. Quelle effimere tentazioni di aver già capito qual è il problema del Cliente per cui è solo questione di ore o la magica capacità di saper prevedere le risposte del Coachee come onore al proprio ego sono visioni che possono emergere tra una domanda e uno spazio di silenzio, ma attenzione a non divenirne succubi prede onde evitare di trasformare radicalmente non solo la relazione ma anche il proprio ruolo professionale.
In termini di gestione della delega, in questo quadrante, i tentativi da parte del Cliente possono essere di tipo “consulenziale”, finalizzati a ricevere un consiglio il più utile e pratico possibile sul da farsi; si è in balia delle onde, la nave sarà anche sicura ma non si sa bene se potrà sostenere gli urti più duri, per cui si cerca, magari, di nascondere il disagio o la paura scaricandoli sul Coach quale “ancora di salvezza” (es. ‘sì…in effetti…non saprei dirti…mentre ci penso un attimo, mi dici tu che ne pensi di ‘sta cosa?!’; ‘per me è sempre stata una cosa normale, scherzi!? Figurati se uno come me, nella mia posizione potrebbe mai permettersi di fare una cosa del genere…sarebbe da pazzi, dai…ma tu nei miei panni non faresti la stessa cosa!?’; ‘guarda, evitiamo di parlare di questo aspetto…scusami se ho sviato, torno in carreggiata, poi, magari, dimmi tu cosa sia meglio fare…’). Il valore e la ricchezza di questi momenti segnano dei “giri di boa” significativi perché possono portare il Coachee tanto a tornare indietro con un qualcosa in più quanto, invece, a prendere un’altra direzione, a deviare il percorso o anche “ad abbandonare la nave” per tuffarsi direttamente in mare, “mettersi a nudo” e accettare di vivere o sperimentare ciò che dentro ha necessità di emergere.
Non noto a Sè, non noto agli Altri (quadrante Sconosciuto):
è l’area che reputo, per eccellenza, la cornice dinamica entro la quale si definisce la Relazione tra Coach e Coachee; qui “si naviga a vista”, nel senso che ci si apre all’inconscio e alle molteplici sfumature che possono emergere da un pensiero, da una riflessione, da una metafora.
Per il Coachee, ogni sessione può rappresentare un nuovo inizio o il principio di una conclusione che lui stesso comincia a sentire strada facendo; il suo “non noto a sé” si sviluppa nel dialogo, divenendo a volte un “noto a sé” che può anche (ri)posizionarsi su altri quadranti in maniera dinamica e per nulla predefinita, così come quel “non noto agli altri” può rivelarsi conosciuto nel momento in cui il Coachee racconta in sessione di un evento sociale che ha influito sul suo percepito, aprendogli spunti orientati a una nuova consapevolezza, o meglio, a un modo diverso di percepire se stesso con e in mezzo agli altri.
Per il Coach, si tratta di comprendere ciò che sta accadendo nella situazione, “cosa sta scaturendo” nel Cliente, sulla base delle parole, dei gesti, degli stati d’animo che il Coachee trasmette al Coach attraverso le sue risposte e riflessioni. Del resto, spesso al Coach non è nemmeno noto il “vero” contesto d’azione in cui contenere la Relazione, in quanto da una problematica “non nota”, o parzialmente tale, al Coachee, si avvia un percorso davvero ignoto a entrambi, che porta ogni sessione a vie parallele, lontane, anche opposte a quelle intraprese durante l’incontro precedente.
Dalla mia esperienza personale, trovo sorprendente come in molti casi sia proprio il disagio “non noto a sé” a guidare le parole del Coachee, il quale inizialmente sembra convinto di sapere cosa non vada, per poi comprendere lui stesso che, forse, ciò che a livello razionale appare così chiaro non è perfettamente nitido come sembra. Di conseguenza, come per il Cliente il suo “non noto a sé” è quanto più ignoto al Coach, così a quest’ultimo tutto ciò “non noto a sé”, che è da svilupparsi nella Relazione, è di riflesso ignoto al Coachee che, proprio tra una sessione e l’altra, cerca di rivelarlo a se stesso, mostrandolo anche al Coach.
In termini di gestione della delega, in questo quadrante, i tentativi da parte del Cliente possono passare da una modalità “direttiva”, per la quale il Coachee tanto si mette in gioco ma altrettanto si aspetta che il Coach gli dia la giusta direzione, ad una più sfaccettata, “rassicurativa” o “consulenziale” che sia, in quanto è la dimensione sconosciuta della Relazione a dettare il cammino (es. ‘…sai che non ci avevo mai pensato!? Forse la volta scorsa te l’avevo accennato, ma non era importante…comunque, dimmi tu se è meglio approfondire questo aspetto o andare oltre, onestamente io non saprei…’; ‘…l’avergli parlato mi ha fatto capire che era solo una mia paura, ma ancora non so se ho fatto bene o male, ti pare?! Tu come la vedi?’; ‘…mi sentivo così sicuro di farcela che, quando poi è successo, non ho capito più niente. Caspita, e pensare che nell’ultimo nostro incontro ti avevo garantito che ce l’avrei fatta…non è che adesso mi vedi in modo diverso?!’). Pertanto, vi possono essere momenti in cui da un profondo disagio si determina un’inaspettata riflessione o da una visione chiara si torna a un insieme di dubbi e paure che aprono (o chiudono) scenari ancora non presi in considerazione.
Per chiudere, “i quadranti […] non hanno confini rigidi. Ad esempio, possiamo decidere di comunicare qualcosa che fino a quel momento apparteneva al ‘quadrante nascosto’ portando così tale elemento ad allargare l’area del ‘quadrante aperto’ e di conseguenza rimpicciolendo la prima” (Pannitti, Rossi, 2012).
Personalmente, trovo il modello della Finestra di Johari un ottimo strumento di orientamento, e al tempo stesso di mappatura, in un percorso di Coaching, che non solo può aiutare il Coach nel raccogliere preziose informazioni date dal Cliente, ma anche di agevolare un processo, a posteriori tra una sessione e l’altra, di analisi autonoma del racconto del Coachee, a mente fredda, per identificare quei punti di attenzione a cui il Cliente ha dato maggiore enfasi, sulla base del quadrante di riferimento.
Federico Polidori
Training Specialist, Trainer, Life Coach
Cologno Monzese (MI)
federicom18@libero.it
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