Categoria: “I” come inganno

Categoria: “I” come inganno

“I” come inganno

Giunto al termine di questa prima fase di apprendimento dei rudimenti de “L’essenza del coaching”, sento naturale condividere l’intreccio tra alcuni dei fondamenti teorici che ritengo di estremo rilievo e la mia esperienza personale di percorso.

 

Inizierei con una citazione dal mio punto di vista decisamente idonea a rappresentare la sensazione che provo, sottratta al capolavoro cinematografico di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso”, e magicamente intarsiata in lingua originale dalla band progressive statunitense Dream Theatre nel brano “Take the Time”:

Ora che ho perso la vista…. Ci vedo di più

 

La focalizzazione della mia breve riflessione si articola attorno alla tanto semplice quanto incontrovertibile funzione espressa dal mentore Timothy Gallwey:

PRESTAZIONE = POTENZIALE – INTERFERENZE (P = p – i)

 

E’ esattamente su questa “i” che cade la mia personale interpretazione, l’innocente metamorfosi di “interferenze” in “inganno”, il cui concetto proverò ora a rappresentare.

 

E’ noto che Gallwey conii l’espressione partendo dalla propria esperienza in ambito sportivo, osservando e sostenendo che gli atleti riescano a offrire la miglior performance nelle condizioni in cui sono ridotti al minimo gli ostacoli interiori. Tale principio viene poi universalmente ripreso dal metodo di coaching in tutti gli ambiti in cui i coach esercitano la propria attività di accompagnamento dei propri coachee. Ma in sostanza, di cosa è fatta questa “i”? Cosa ci occorre per esplorarla, per darle una definizione? Una luce? Una lente di ingrandimento? Un faro antinebbia? Uno scalpello? E soprattutto, perché “inganno”?

 

L’avversario che si nasconde nella nostra mente è molto più forte di quello che troviamo dall’altra parte della rete” è l’insegnamento che ci lascia Gallwey. Possiamo classificare le resistenze alla mobilità in tre macro categorie: le interferenze interne, sfera dell’intelligenza emotiva, i blocchi del pensiero, ambito del rapporto tra pensiero verticale e laterale, ed infine le convinzioni limitanti, frutto di un processo sequenziale della nostra mente che da una selezione di informazioni genera un’opinione che tramuta rapidamente in una convinzione e di conseguenza in un comportamento.

 

Le convinzioni limitanti, eccoci toccare l’essenza dell’inganno. Queste derivano infatti da esperienze ripetute che sedimentano, radicandosi nella nostra mente come verità incontrovertibili, in una piena distorsione cognitiva, portandoci a creare una serie di realtà soggettive non corrispondenti all’evidenza. Ma in particolare da dove si origina questo bias cognitivo?

 

Ricordo un aneddoto narratomi da Lucas, compagno di studi universitari, invitato dall’amico statunitense Mike a trascorrere, alla fine degli anni Novanta, un breve periodo di vacanza presso la sua pittoresca dimora situata presso le rive del Gator Lake, in Florida. Appena giunto sul posto, un luogo ancora più incantevole di quanto potesse immaginare, complice un sole meraviglioso e una leggerissima brezza, si lasciò per prima cosa a un tuffo liberatorio nelle accoglienti acque, godendosi una rilassante nuotata. Tutt’attorno era pace, il corpo coccolato dalla freschezza delle acque, i dolci suoni della natura a ritemprare finalmente un animo negli ultimi mesi sottoposto ad uno stress quotidiano fortissimo. D’un tratto, su una piccola imbarcazione in legno poco distante, vide un ragazzino intento ad urlare e sbracciarsi verso la sua direzione. Lucas non impiegò molto a comprendere cosa il ragazzino stesse tentando di comunicare: “Alligatooor!!!”. In meno di una frazione di secondo Lucas si tramutò in un motoscafo, con l’unico obiettivo di raggiungere la riva nel minor tempo possibile. Arrivato ansimante ma sano e salvo al cottage, incrociò Mike che, compresa istantaneamente la situazione lo accolse con una fragorosa risata; il povero Lucas altro non era rimasto che l’ennesima vittima del preferito dei passatempi dei ragazzi che abitavano la zona.

 

Perché, ora, la scelta di questo frammento di ricordo? Perché esplica con estrema semplicità la teoria del comportamento razionale; c’è perfetta coerenza tra ciò in cui crediamo della realtà che osserviamo, quello che pensiamo, l’emozione che sentiamo e di conseguenza l’azione che compiamo. Lo stesso specchio d’acqua si è tramutato in pochi istanti da paradiso a luogo del terrore per il povero Lucas. Per il suo cervello era irrilevante verificare che vi fosse o meno l’alligatore. Non conta ciò che vediamo, ma ciò che crediamo di vedere.

 

Le neuroscienze associano ai primi sette anni di vita dell’essere umano il periodo in cui il cervello assorbe ed elabora la maggior parte delle informazioni derivanti dall’ambiente circostante, ricostruendo scenari di realtà soggettiva densi di pericoli ed opportunità, veri e propri cluster omogenei da cui derivare il proprio set di meccaniche azioni.

 

Questo complesso ma naturale esercizio del nostro cervello porta inconsapevolmente ciascun individuo a costruire la propria immagine di marca, ossia il “soggetto/brand” attraverso il quale tenderemo a presentarci al mondo per tutta la nostra vita (un giorno vi descriverò il mio), perché capace di saper fare, in ogni frangente, la cosa giusta.

 

La sequenza di ripetizione del processo è piuttosto semplice; avviene un qualsiasi evento durante la nostra giornata accompagnato da un segnale anche molto semplice (alcuni studiosi lo definiscono “pinch”); può essere uno sguardo, il tono della voce, una specifica parola, un’attitudine corporea della persona (per lo più inconsapevole) che ci passa accanto in quell’istante. Questi pinch, siano essi positivi (opportunità da aggredire) piuttosto che negativi (pericolo da cui fuggire), istantaneamente evocano al nostro cervello una situazione apparentemente già vissuta (“Alligatooor!!!”), e per la quale il nostro perfetto elaboratore ha già codificato un comportamento che in passato è risultato efficace, ossia idoneo a gestire quella particolare situazione apparente. Per il nostro cervello al grido di “alligator” non è importante verificare se nel lago vi sia o meno la presenza di un predatore, ma nuotare a grandi bracciate verso la sponda, ossia agire immediatamente un comportamento che in passato ci ha preservato da quel possibile pericolo.

 

In tutto ciò vi è la certezza che buona parte dei nostri comportamenti, soprattutto quando siamo alla mercè (di questo parleremo più avanti) di un evento, sono agiti in modo non del tutto consapevole. In questo mio percorso di apprendimento, ho assistito ad un curioso incontro tra il maieutico “Io so di non sapere” e l’umano “Io non so di sapere”, ossia non so che in quella determinata condizione avrò con certezza quel determinato comportamento. Ma l’inganno si può conoscere, comprendere e magari governare? Non è un processo semplice, ma le neuroscienze, la psicologia, la bioenergetica ed anche il coaching ci possono offrire diversi strumenti per esplorare noi stessi, riconoscere la nostra personale immagine di marca ed aiutarci nell’arte dello shift dei comportamenti (che altro non è che un esercizio di risalita della scala di inferenza). Attenzione, lungi da me il ritenere che il proprio essere sia una costruzione di carattere negativo da combattere, al contrario, è rilevante nutrire fiducia in se stessi e gioire del nostro potenziale, ma un grande dono avere la consapevolezza che nelle nostre giornate possiamo anche valutare alternative di comportamento di fronte alla realtà che osserviamo. Ciò che mi ripeto, e ne sono convinto, è che mi sento di essere l’adulto che sono diventato non sempre grazie alla mia immagine di marca, ma qualche volta nonostante.

 

Una grande risorsa, di estremo valore soprattutto in un contesto come quello attuale che tende a soffocarla, è il silenzio evolutivo, funzionale al “qui ed ora”, utilissimo per riformulare. La nostra mente istintivamente lo rifiuta, vuole le soluzioni, la cosa giusta da fare. Il silenzio è invece fonte di disagio, ci costringe ad attraversare uno stato d’animo scomodo, le nostre paure, spesso la vergogna, risorse fondamentali per aiutarci a spingerci un po’ più in là rispetto ai nostri limiti. Il coach dona questo spazio di umanità, accompagna il proprio coachee in questa parte di percorso particolarmente difficile, in modo che l’esercizio di esplorazione si traduca in un’autentica esperienza di mobilità.

 

Ma qual è il senso di tutto ciò? Quale lo scopo di questo viaggio, il premio per il coraggio di esplorare? Non ho la presunzione di possedere la risposta, tra l’altro mi sto abituando ad un nuovo ruolo in cui la chiave non è appunto la risposta, bensì la domanda giusta. Tuttavia ritengo che una buona ispirazione è ricercabile nella teoria della ghianda di Hillman, nel claim: “diventa ciò che sei”, nella ricerca della propria vocazione attraverso la scoperta delle potenzialità umane di cui siamo ricchi fin dalla nostra infanzia; potenzialità che se riconosciute e valorizzate durante la nostra quotidiana esistenza colorano di senso, e di successo, la nostra stessa vita.

 

Possiamo infatti identificare due ben distinti stati della nostra esistenza, l’essere alla fonte piuttosto che alla mercè di qualcosa. Anche se non catalogate esattamente in queste letterali categorie, lo studio di queste condizioni appartiene alla sfera della ricerca della psicologia positiva di Martin Seligman, fondatore del movimento che pone l’accento sulle diverse tipologie di vita felice. E’ dello psicologo Csikszentmihalyi la teorizzazione dell’esperienza del “flow”, dell’esperienza ottimale, stato nella quale la condizione quasi di estasi porta la prestazione dell’individuo a livelli elevatissimi. Ai due differente stati, fonte e mercè, corrispondono emozioni e stati d’animo diametralmente opposti. Motivazione, entusiasmo, distorsione del senso del tempo, chiarezza appartengono alla condizione di esistenza alla fonte; frustrazione, apatia, noia, confusione, ogni qual volta ci ritroviamo invece a vivere alla mercè.

 

La capacità di identificare con chiarezza quale sia la condizione in cui ci troviamo in un determinato momento è il primo passo per shiftare verso la condizione positiva, per esprimerci al meglio rispetto a ciò che siamo, verso la realizzazione della profonda aspirazione che è dentro di noi sin dall’infanzia.

 

Il coaching è un percorso, un percorso in cui non si è soli. E con questa consapevolezza non resta che augurarsi, ed augurarvi buon viaggio.

 

 

Gabriele Mariani

Direttore Operations settore Trasporto Pubblico e Coach Professionista | Lombardia

gem.mariani@gmail.com

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