
Diventare coach: una questione di mind set professionalizzato!
Per cominciare…
Ho imparato con il tempo e con l’esperienza che essere coach implica conquistarsi una certa familiarità con il concetto del divenire consapevole. Il tutto comporta un modo di vivere e organizzare la propria professione che non può dirsi improvvisato, né privato di un approccio e di un apparato metodologico. Soprattutto implica un mind set costitutivo del concetto e della pratica dello sviluppo, inteso quale evoluzione e cambiamento migliorativo del soggetto umano. In quest’ottica la propria attitudine precede e rende più significativo l’ottimizzazione della competenza da coach e con essa l’interconnessione con una abilità professionale che pone al centro di tutto il valore e il potenziale della unicità dell’altro.
Se la prima postura dell’essere coach emerge dalla sua fedeltà al divenire, la sua prospettiva di sguardo non può che esprimersi nella professione in modo dinamicamente riflessivo e creativo, dove la consapevolezza circa la propria cifra stilistica si trasforma in esperienza e l’esperienza in apprendimento solido.
Ci sono molti modi in cui potersi vivere come coach. Tuttavia, il potenziale dell’altro (il coachee) diventa per ognuno il punto focale e per il quale occorre saper sviluppare una prospettiva binoculare che profonde lo sguardo professionale. Si intende con questa la capacità di stare in relazione con il coachee a partire dal rispetto delle sue peculiarità per poi saperlo condurre nella valorizzazione della sua complessità e ricchezza poliedrica, poiché è nella domanda del coachee che quest’ultima rimane dissipata, inespressa, passiva.
Ne consegue che il punto d’inizio di questa attitudine trova il suo ancoraggio in un assioma socratico per il quale “So di non sapere”. Infatti solo rimanendo umili, inclini alla sorpresa e alla scoperta dell’altro (coachee), accettando di porci ogni volta in uno stato di disorientamento positivo ma fuori dal rischio di etichettare, l’essere coach può capitalizzare il tempo e il senso della propria vita professionale.
La professione di coach implica allora un allenamento costante circa la capacità di “saper fare sé stessi “. *
(* espressione coniata dalla filosofa Anna Arendt)
Al contempo presuppone una flessibilità e degli agenti conatus che ottimizzano la costituzione di una relazione di fiducia, in funzione delle diversità dei coachee. A fronte di tutto questo, i piani teorici dell’essere coach si innervano in quelli pratici poiché nell’esperienza a cui si è chiamati alcune abilità necessitano di essere costituite in modo solido e non vacuo.
Che cosa designa le inclinazioni di un coach?
In tal senso sono allenabili i seguenti registri professionali:
- 1) Capacità di costruire con il coachee una relazione facilitante basata sull’affinamento della competenza di ascolto attivo, accoglienza, alleanza, postura riflessiva autentica;
- 2) Capacità di comunicazione creativa, flessibile ed efficace per interagire in modo costruttivo con la molteplicità delle richieste e degli stili cognitivi/comportamentali dei coachee,;
- 3) Capacità di padroneggiare strumenti e tecniche che favoriscano lo sviluppo del potenziale umano del coachee;
- 4) Capacità di traghettare, in ottica evolutiva, il potenziale inespresso del coachee in una risorsa prima consapevole e poi agita;
- 5) Disposizione ad evolvere lui stesso e a futurizzarsi mediante un apprendimento e un aggiornamento continuo circa le proprie competenze e abilità.
È questione imprescindibile di essere ma soprattutto è questione di divenire autenticamente coach.
Per saperne di più puoi cliccare sul link della Scuola di Coaching Evolutivo® presso cui mi sono diplomata: https://www.incoaching.it/coaching-evolutivo/
In esclusiva per INCOACHING®, testo di Simona Rebecchi – Coach professionista diplomata INCOACHING®
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