Categoria: Dal Talento come Moneta al Talento come Potenziale

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Dal Talento come Moneta al Talento come Potenziale

La Mobilità del Coaching Evolutivo.

La parabola dei talenti

 

Da dove deriva il termine “talento”?
Nella nostra cultura e nel nostro linguaggio quotidiano è spesso utilizzato come sinonimo di dote naturale o capacità innata.

 

Tuttavia, la sua origine etimologica ci riporta un significato ben diverso e sorprendentemente materiale: il talento (τάλαντον in greco antico) era inizialmente un’unità di peso e successivamente una moneta di considerevole rilievo nell’antichità, diffusa in particolare nel bacino del Mediterraneo. Il suo valore poteva corrispondere a una importante somma, equivalente a molti anni di stipendio per un lavoratore comune.

 

La Parabola dei Talenti, narrata nel Vangelo secondo Matteo (25:14-30), utilizza proprio questa valuta come metafora per trasmettere un messaggio profondo sulla responsabilità individuale e sul concetto di sviluppo del potenziale.
Nella parabola, un padrone affida ai suoi servi delle somme di denaro – i talenti – prima di partire per un lungo viaggio. A uno consegna cinque talenti, a un altro due, al terzo uno solo, “secondo le capacità di ciascuno”. I primi due servi investono e raddoppiano quanto ricevuto, mentre il terzo, per paura, sotterra il suo talento.

 

La prima domanda che ci si pone è: perché questo padrone si comporta in modo così ingiusto, consegnando un numero di monete diverse a ciascun servo?
E perché pretende che i servi impieghino le monete per farle fruttare?

 

La simbologia che sottende questa antica narrazione è sorprendentemente attuale quando la si analizza attraverso la lente del coaching evolutivo.
Se partiamo considerando le competenze (sapere, saper fare e saper essere, attingendo dalla pedagogia contemporanea), è evidente che ogni essere umano ne possiede un mix unico e in misura diversa da qualsiasi altra persona.

 

James Hillman, nella Teoria della Ghianda, sostiene proprio che ognuno di noi nasce con una dotazione propria, unica, ma non ancora sviluppata. Sta a noi, nutrendo la nostra ghianda, diventare la quercia che potenzialmente siamo.
Nutrendo i nostri talenti, facendoli fruttare, saremo in grado di essere la migliore versione di noi stessi, come ci ricorda Judy Garland.
Sicuramente una frase d’effetto, ma come far fruttare i propri talenti, per essere la versione migliore di noi?

 

 

Cos’è la mobilità all’interno del coaching

 

Il parallelo tra la parabola e il processo di coaching emerge in modo particolarmente evidente nell’analisi della “mobilità”, termine che nel coaching indica la capacità di attivare e sviluppare il potenziale intrinseco del cliente.

 

La simbologia del racconto evangelico, ci disegna l’uomo come portatore di talenti (qualità), alcuni dei quali sono esplicitamente conosciuti, mentre altri sono solo potenziali.

 

Ciò che il padrone del campo si aspetta dai suoi servi, è che mettano in movimento i talenti che a loro affida. Ed è proprio qui che si innesta il forte parallelismo con il concetto di “mobilità”. All’interno del coaching, il mettersi in movimento, significa trarre il meglio da se stessi, far emergere quelle qualità implicite, quelle ricchezze sconosciute che ogni persona, in maniera unica possiede. Per ottenere questo, occorre mettersi in gioco, maneggiare i propri talenti, conoscerli e farli fruttare.

 

La mobilità nel coaching rappresenta quel processo dinamico attraverso il quale il coach accompagna il cliente in un percorso di scoperta e potenziamento delle proprie risorse interiori. Come i servi della parabola, ogni individuo parte da un diverso livello di “talenti” – intesi qui come potenziale di partenza – ma è la capacità di metterli in movimento, di investirli e di moltiplicarli che determina il vero successo del processo di coaching.

 

Il concetto di mobilità si articola in tre dimensioni fondamentali nel processo di coaching:

1. Mobilità Cognitiva: rappresenta la capacità di espandere i propri schemi mentali e modificare le proprie prospettive. Come i servi che devono decidere come investire i talenti ricevuti, il cliente nel coaching è chiamato ad esplorare nuove possibilità e visioni alternative della realtà. Il coach facilita questo processo attraverso silenzi, domande e tecniche di riformulazione che stimolano nuovi pattern di pensiero.

 

2. Mobilità Emozionale: coinvolge la capacità di gestire e trasformare gli stati emotivi che potrebbero limitare lo sviluppo del potenziale. Il terzo servo della parabola, bloccato dalla paura, rappresenta emblematicamente la paralisi che può derivare da un’inadeguata gestione delle emozioni. Il coaching lavora attivamente su questa dimensione, aiutando la persona a superare i blocchi emotivi che impediscono la piena espressione dei propri talenti.

 

3. Mobilità Agentiva: si riferisce alla capacità di tradurre le intuizioni e le comprensioni in azioni concrete. Come i primi due servi che agirono attivamente per moltiplicare i talenti ricevuti, il coachee è supportato nell’implementazione pratica delle strategie elaborate durante le sessioni.

 

La mobilità nel coaching rappresenta quindi un processo trasformativo che va ben oltre il semplice miglioramento delle performance. Si tratta di un percorso di sviluppo integrale che coinvolge l’individuo nella sua totalità, promuovendo una crescita sostenibile e duratura. Come nella parabola, dove il focus non era tanto sul valore iniziale dei talenti quanto sul loro utilizzo, nel coaching l’enfasi non è posta sulle capacità di partenza del coachee, ma sulla sua disponibilità a metterle in movimento e svilupparle.

 

 

Quali sono, nel processo di coaching, le specifiche fasi di sviluppo in cui si manifesta la mobilità del potenziale

 

Ne possiamo individuare 3, presenti in ogni sessione di coaching.

1. Fase di Riconoscimento della potenzialità latente: il coachee, supportato dal coach, identifica i propri “talenti” attuali e potenziali emersi nel racconto di sessione. Proprio come i servi della parabola, anche al coachee viene chiesto di riconoscere il valore di ciò che è stato a lui affidato.

 

2. Fase di Consapevolizzazione della risorsa: attraverso tecniche specifiche di coaching, il coachee inizia a comprendere il movimento in corso, come i talenti riconosciuti sono realmente in suo possesso. Questa fase è decisiva all’interno del coaching, perché minimizza il rischio che la risorsa del coachee torni dormiente. Solo con la consapevolezza del movimento percepito si può fissare la nuova potenzialità, facendola diventare vera e propria risorsa.

 

3. Fase di messa in azione della nuova risorsa: il coachee sperimenta nuove modalità di utilizzo delle proprie risorse e sviluppa strategie per massimizzare l’impatto dei propri talenti, analogamente ai servi che riuscirono a raddoppiare quanto ricevuto. In questo modo, le nuove competenze e modalità di utilizzo dei talenti vengono incorporati stabilmente nel repertorio comportamentale del coachee.

 

E’ interessante evidenziare come, in tutte queste fasi, l’obiettivo del coachee non sia menzionato.
Il concetto chiave è che il coaching non si concentra sul contenuto specifico dell’obiettivo, ma piuttosto sul processo di crescita che il coachee attraversa per raggiungerlo.

 

In altre parole, il coach non è un consulente che suggerisce quale obiettivo perseguire, non è nemmeno un esperto nel settore specifico dell’obiettivo, non ha un interesse personale nel risultato finale. L’unico interesse che ha è la mobilità del coachee. Ovvero che il coachee intraprenda un percorso di consapevolezza delle proprie risorse e di crescita nella sua autonomia decisionale.

 

È come dire che l’obiettivo è il “veicolo” attraverso il quale il coachee sviluppa il suo potenziale. Non importa quale sia la destinazione, l’importante è come la persona cresce durante il viaggio.

 

 

E se questi talenti non vengono messi in moto, cosa accade

 

A questo interrogativo risponde anche Abraham Maslow, in un suo scritto del 1971: Le attitudini pretendono di essere sfruttate e cessano di protestare soltanto quando vengono adoperate in misura sufficiente.

 

Vediamo come si collegano Maslow, l’evangelista Matteo e il coaching evolutivo.

 

· Tutti suggeriscono che i doni e le capacità che possediamo portano con sé una responsabilità: quella richiesta al coachee nel suo percorso di crescita. Come i servi erano chiamati a rendere conto dell’utilizzo dei talenti ricevuti, così nel coaching il cliente è invitato ad assumere la piena responsabilità del proprio sviluppo personale e professionale. Il coach, in questo contesto, assume un ruolo analogo a quello del padrone della parabola: non fornisce direttamente le risposte, ma crea le condizioni affinché il cliente possa scoprire e sviluppare autonomamente il proprio potenziale.

 

· Come nella parabola il talento non utilizzato porta a una perdita, così Maslow suggerisce che le attitudini non sviluppate creano una tensione interiore, una sorta di “protesta”: le potenzialità che il coachee non coltiva (perché non pienamente consapevole di possederle), prima o poi svaniranno.

 

· In entrambi i casi, c’è l’idea che le capacità non sono date per rimanere dormienti, ma per essere sviluppate e messe al servizio di uno scopo più grande: la propria e altrui felicità, come spiega Fordyce.

 

· Il non utilizzo dei propri talenti non è semplicemente neutrale, ma attivamente negativo. La similitudine è quella della navigazione in una barca a remi controcorrente: nel momento in cui non ci mettiamo in movimento, mettendo letteralmente ‘i remi in barca’, non solo non continueremo la navigazione nella direzione della crescita personale, ma la corrente ci porterà inesorabilmente nella direzione opposta.

 

 

Conclusioni

 

Il viaggio alla scoperta e allo sviluppo dei nostri talenti è dunque una responsabilità che non possiamo ignorare. Come ci insegnano la parabola dei talenti, gli insegnamenti di Maslow e i principi del coaching evolutivo, le nostre capacità sono come semi che attendono di essere coltivati. Non metterli in movimento significa non solo perdere un’opportunità di crescita, ma regredire. Il coaching si rivela uno strumento prezioso, non tanto per dirci dove andare, ma per aiutarci a navigare consapevolmente verso la nostra realizzazione. Il tempo per iniziare questo viaggio è ora: i nostri talenti sono pronti per essere messi in movimento, per trasformarsi da potenzialità in concrete risorse. Ricordiamoci che ogni giorno in cui scegliamo di non sviluppare i nostri doni è un giorno in cui rinunciamo a diventare chi siamo davvero chiamati ad essere.

 

 

Elisabetta Chini

Consulente e Professional Coach | Emilia Romagna

chini@officinastudio.it

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