Categoria: Coaching: parallelismo sul Metodo VS un allenatore NBA di successo

Categoria: Coaching: parallelismo sul Metodo VS un allenatore NBA di successo

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Coaching: parallelismo sul Metodo VS un allenatore NBA di successo

Premessa

Delle migliaia di Allenatori sportivi nel mondo quanti hanno lavorato con i miglior talenti singolarmente? Tra questi rari casi Idan Ravin, un allenatore di pallacanestro di grande successo che ha allenato per anni i più grandi campioni NBA singolarmente e che ha recentemente pubblicato la propria autobiografia (1).
In questa mia tesina, da cui il seguente estratto, evidenzio alcuni rilevanti insights dall’autobiografia di questo allenatore di basket ‘particolare’ – i.e. ha lavorato per anni con singoli campioni sviluppando una sua professionalità specifica – per:

  • riassumerne gli elementi chiave del successo, inteso come l’essere riuscito col proprio lavoro/metodo ad affermarsi in un ambiente competitivo ed elitario come quello della NBA (dopo essersi creato l’occasione di iniziare ad allenare alcuni dei suoi campioni)
  • riflettere su questi mettendoli all’interno di un parallelismo stretto con i “pilastri” che reggono il metodo di Coaching come l’ho appreso nel percorso Incoaching, e fornire quindi un esempio – che ritengo personalmente di ispirazione e motivante – di dove si può arrivare come Coach e come Coachee quando questi elementi sono presenti.

 

Parallelismo con i “pilastri” del metodo di Coaching

1° PILASTRO: LA RELAZIONE FACILITANTE e CREATIVA

Fin dalle prime pagine autobiografiche di Ravin ho riscontrato un forte parallelismo tra alcuni elementi chiave della sua “arte” (vd Conclusione) e il 1° pilastro del metodo di Coaching. Già nel primo capitolo l’autore:

  • si interroga sul modo più opportuno di accogliere l’atleta, i.e. il coachee nel Coaching (e in altri passaggi descrive come si sia regolato di caso in caso nell’accoglienza i campioni con cui ha collaborato);
  • ritiene necessario che vi siano attenzione, rispetto e impegno dell’atleta/coachee perché l’allenamento porti vantaggio ad entrambi, e che per far questo lui stesso debba adottare autorità e attenzione verso l’atleta/coachee; di fatto dichiara la necessità di un suo ruolo attivo e consapevole nel creare fin dai primi istanti una relazione alla pari, dove non è né dominante né sottomesso. Arriva a paragonare se stesso e l’atleta/coachee (LeBron James, riconosciuto dai più come il migliore giocatore di basket al mondo di questi anni) con Pi e la tigre, esplicitando così distintamente – anche in senso fisico tramite la similitudine – che la relazione deve essere complementare nei ruoli perché lui possa essere nel tempo utile all’atleta/coachee. Questa relazione alla pari con complementarietà dei ruoli è asimmetrica nel contenuto che è tutto portato dell’atleta/coachee che, in risposta ai work-in proposti dall’allenatore, esprime quello che sa (fare) sul campo e riceve dal Coach feedback su questo;
  • sottolinea l’importanza del setting, che deve essere funzionale alla parità di relazione (vd sopra; entrambi in abbigliamento da allenamento, in piedi sul campo, con prossemica coerente al tipo di esercizio, etc.) così come all’allenamento, in primis impedendo ogni interferenza con la volontà dell’atleta/coachee di sperimentare e sbagliare (definisce la palestra la ‘nostra aula’, fa il possibile perché sia tutta per lui e l’atleta, a sottolineare l’importanza che vi attribuisce in quanto in ambiente cestistico è uso comune allenarsi in squadra e in generale non avere una palestra per sé. Ciò perché ritiene basilare per il miglioramento dell’atleta che questi non abbia filtri dovuti all’apparire e possa invece maturare consapevolezza (NdA, la “C” di C.A.R.E.®) su dove e come migliorare. Inoltre l’essere soli, con ruoli complementari e senza altri compagni di allenamento, impedisce all’atleta/coachee ogni tentativo di delega (vedere l’immagini a fondo pagina, l’esempio di Kara);
  • nella comunicazione, ad esempio nei feedback, è attento sui tre canali (verbale, non verbale, para-verbale), con due scopi dichiarati: più tattico, rafforzare il messaggio logico grazie alla conferma dalle sensazioni fisiche e rimuovere nel contempo eventuali filtri istintivi; più strategico, tono e linguaggio devono essere in generale adeguati allo specifico atleta/coachee perché la relazione possa avere le basi durature che necessita;
  • parla consapevolmente di prevalenza dell’ascolto attivo e del sentire del Coach, rispetto al parlare. Per lui le parole in palestra sono limitate alla descrizione degli esercizi da fare (work-in) ed ai feedback, il resto è tempo per l’osservazione e l’ascolto attivo, per raccogliere spunti per ideare nuovi esercizi funzionali al miglioramento dell’atleta (vedi parallelismo col 2° pilastro);
  • implica chiaramente anche un’alleanza con il coachee ed il suo futuro desiderato di miglioramento (“necessarie per l’allenamento e vantaggiose per ognuno di noi”, “È la nostra aula”, “L’unica occasione che avevo di aiutarlo a migliorare era …”); anche circa la quarta “A” del livello ‘esterno’ della relazione nel Coaching, l’Autenticità, vi sono espliciti e significativi spunti nel libro (vedere l’immagini a fondo pagina, l’esempio di Kara) dove si vede come ritenga anch’essa parte fondamentale e integrante della relazione con l’atleta/coachee;
  • chiarisce che per lui la posizione relazionale è ‘io ok, tu ok’: usa le valutazioni come strumento necessario all’attività da svolgere con l’atleta/coachee (es. per l’ideazione dei work-in), ma evita il giudizio, restando centrato. Ad esempio si esprime verso l’atleta/coachee (i) ricordandone in senso positivo le valutazioni quantitative delle performance, creando un clima di positività verso lo spazio di ulteriore miglioramento, e chiarendo in modo trasparente di aver per scopo farlo sentire meglio, non ferirne i sentimenti; e soprattutto (ii) non per “Cercare l’amore della tigre” che “mi avrebbe messo al sicuro da morte immediata” (si legga “fare marketing di me nel breve”) bensì per “mostrare, con il tempo, la mia importanza nella sua vita e di costruire un rapporto di fiducia”. Quindi relazione duratura, basata su centratura del Coach, io ok, tu ok.

 

Sottolineo altri due aspetti a rafforzamento del parallelismo sul pilastro Relazione Facilitante – che ricorre nel libro in numerosi aneddoti con diversi atleti/coachee (a testimonianza intrinseca del successo professionale dell’autore e della rilevanza del contributo ad esso di questi elementi relazionali):

  • un contributo importante (alla Relazione Facilitante) viene dal concludere il primo incontro (sessione zero nel Coaching) senza che sia lui/il Coach a spingere l’atleta/coachee per avviare un percorso insieme, così che l’eventuale futura relazione sia sgombra da possibili finalità diverse del Coaching;
  • l’autore racconta la sua vita/passione/lavoro per aneddoti scegliendo di partire da uno in cui evidenzia distintamente quello che per il Coaching è la Relazione Facilitante: anche per lui è un elemento chiave primario del suo successo (i.e. un “primo pilastro”)

 

2° PILASTRO: SVILUPPO DEL POTENZIALE

[Oggetto del parallelismo: (i) Potenzialità caratterizzanti del singolo e loro riconoscimento e allenamento; (ii) Esercizio intenzionale, motivazione interna, competenze calde e flow]

Già nell’introduzione l’autore dichiara distintamente che il suo operare come allenatore/Coach dipende dalle capacità e potenzialità uniche dell’atleta/Coachee, e dalle sue inclinazioni, e non può essere applicato a prescindere:

[riguardo a degli esercizi (i.e. work-in) per l’atleta] “[…]  le decisioni prese in precedenza sarebbero state riviste in base a ciò che sentivo da lui durante il nostro incontro. Non si può seguire un copione alla lettera quando si lavora con le superstar (NdA, il coachee). Se sento riluttanza, preferisco fermarmi. Se sento passione, voglio spingere di più. Se sento indifferenza, mi piace improvvisare.”

Vediamo anche come non disponendo di test std di valutazione delle potenzialità, usi fin da subito le sue sessioni di allenamento come sperimentazioni per testare e riconoscere le potenzialità specifiche dell’atleta/coachee, in particolare quelle per lui più o meno ‘eudaimoniche’, stando attento a percepire e distinguere esplicitamente tra riluttanza, passione, indifferenza (incidentalmente notiamo ancora la già citata Relazione Facilitante che porta il Coach ad accogliere l’unicità del coachee e garantire che sia sempre lui al centro della scena).
In un altro aneddoto esperienziale autobiografico:

[in riferimento ad un allenamento dell’atleta con la sua squadra in cui l’autore ha potuto assistere/osservare come esterno] “[…] si distraeva facilmente. […] aveva una soglia dell’attenzione molto bassa […] Ho scoperto che amava i film, così ho pensato che avesse una certa sensibilità visiva e potesse imparare prendendo parte alle dimostrazioni.”

Notiamo invece la messa in pratica di alcuni elementi base della Self-Determination Theory (SDT) e della Psicologia Positiva (PP), intesi come cornice teorica del Coaching sul tema delle potenzialità caratterizzanti e del loro allenamento:

  • SDT: l’uomo per sentirsi realizzato e tendere ad una vita felice deve soddisfare i tre bisogni psicologici di Relazionalità, Competenza e Autonomia;
  • in un percorso di Coaching il Coach – nell’accompagnare il coachee nel suo piano d’azione verso il suo obiettivo e più ampiamente nel suo sviluppo personale – allena alcune risorse ‘positive’ del coachee che facilitano la soddisfazione in queste aree di autorealizzazione;
  • PP: le risorse positive/i tratti individuali positivi allenabili del coachee sono da ricercarsi tra le 6 virtù presenti in misura diversa in ogni essere umano e che si manifestano tramite 24 potenzialità umane universalmente riconoscibili (ogni persona possiede fino a 5 potenzialità caratterizzanti), tra cui l’“Apprezzamento della bellezza e dell’eccellenza” che nella Consensual Definition dello studio (2) guidato da M. Seligman e C. Peterson riporta fra l’altro “A person high on this strength frequently feels awe and related emotions (including admiration, […]) while for example […] watching sports or movies”.

 

L’atleta in questione infatti sta tendendo principalmente a soddisfare l’area della Competenza (vuole essere efficace e raggiungere precisi risultati) e il Coach, sulla base di ciò che osserva e sa del coachee, lo accompagna allenandolo sulla sua potenzialità caratterizzanteApprezzamento della bellezza e dell’eccellenza” per facilitarlo in questa sua tensione. (“L’individuazione, l’allenamento delle potenzialità ed il loro utilizzo in azioni concrete e finalizzate ad obiettivi autodeterminati portano inevitabilmente il coachee verso uno sviluppo dell’area della Competenza”, Spence (3)).
In altri passaggi l’autore/Coach torna sull’assenza di una ricetta applicabile a priori e la necessità invece di seguire le capacità, potenzialità e inclinazioni uniche dell’atleta/coachee:

“[…] non avevo nessun piano scritto da cui cominciare, avrei improvvisato una volta testata la sua energia e avrei calibrato gli esercizi sulle sue abilità.”

e aggiunge numerosi altri elementi che permettono di sviluppare ulteriormente il parallelismo col Coaching sullo Sviluppo del proprio Potenziale. Vi sono infatti spesso riferimenti autobiografici in cui – nel creare un piano di allenamento specifico per il singolo, calibrato qualitativamente e quantitativamente – evidenzia la volontà da un lato di ideare esercizi (work-in) che siano originali e creativi:

“Ho tratto ispirazione ovunque […] Sport Illustrated, […] Isiah Thomas dei Pistons nel pre-partita […], una frase sentita dire a un telecronista a proposito di Byron Scott dei Lakers, […] allenamenti pre-stagione dei San Francisco 49ers (NdA, squadra di football), […] come i pugili che guardavo sulla ABC miglioravano il gioco di piedi. […] Ho ordinato via email un depliant che discuteva i benefici di esercizi pliometrici. […].”

e dall’altro di ricercare soprattutto che siano specifici e intenzionali, non automatici:

“[…] Mi sono convinto che la cosa migliore per migliorare le proprie capacità sarebbe allenarsi in brevi e ben definite sessioni, utilizzando esercizi per ricreare ed anche esasperare le situazioni di gioco in partita. Incorporare diversi movimenti può stimolare simultaneamente il cervello, i sensi, il cuore, i polmoni e creare nuovi percorsi neurali. Non chiedetemi come so queste cose […] è nato in me quando ho visto Steve confrontarsi in quella sessione di allenamento mono-dimensionale con la squadra […] troppo lunga, poco originale e monotona, senza intensità e senza molta collaborazione del giocatore […] Ho lasciato la palestra non molto impressionato da quegli allenamenti stile NBA.”

 

“Nella mia esperienza nell’allenamento i condizionamenti (NdA, il raggiungimento di condizioni di affaticamento) contano.”

 

“[…] Le lacrime si sono placate, probabilmente grazie alla fatica e alla consapevolezza [NdA, permessa dagli esercizi] […]. Il movimento, il tiro e provare qualcosa di nuovo riportarono in Alana la gioia di giocare. Stava facendo qualcosa con grande impegno e intensità. […] Il suo breve problema di autostima le ha fatto capire il suo vero potenziale (NdA, la “C” di C.A.R.E.®) […] si è impegnata, si è messa in gioco […] Alcuni giorni dopo ho letto che mi aveva indicato come uno dei principali motivi dei suoi miglioramenti.”

 

“[…] Stavo chiedendo molto […] ma se amava veramente il Gioco, avrebbe vissuto quei momenti come un’occasione per migliorare.”

 

Più volte l’autore evidenzia volutamente la necessità di avere contemporaneamente (i) esercizi che allenino le abilità specifiche dell’atleta/coachee e che siano mirati, persistenti, non automatici, e faticosi per lui, e (ii) la presenza di un pre-requisito, ‘l’amore per il Gioco’, che valuta molto seriamente e in modo ricorrente in quanto lo reputa la fonte interiore di spinta ad affrontare per anni l’impegno e la fatica richiesti dagli esercizi intenzionali.
Nel parallelismo con lo Sviluppo del Potenziale, questi sono due elementi chiave in quanto concretizzazione di quanto visto nel percorso Incoaching: il modello esplicativo dell’apprendimento delle competenze, ripreso anche da Whitmore, che prevede quattro fasi distinte di apprendimento (da incompetenza inconscia a competenza inconscia) non spiega la realizzazione di prestazioni di eccellenza, i grandi talenti non si abbandonano ad automatismi, serve l’esercizio intenzionale – progettato per lavorare nella zona di apprendimento, non di confort o panico, mentalmente impegnativo, non piacevole per sua natura ma che richieda una motivazione intrinseca per essere svolto in modo prolungato nella zona di apprendimento – per progredire continuamente; e la passione che sostiene l’esercizio intenzionale, tanto faticoso da non essere alla portata di tutti, è un impulso fondamentalmente intrinseco.
Il tipo di esercizi che l’autore ricerca con la sua creatività sono come gli esercizi intenzionali del Coaching e “l’amore per il Gioco” che ricerca negli atleti/coachee è come l’identificatore della motivazione interna durevole, che ‘scalda’ le competenze specifiche dell’atleta/coachee funzionali al suo scopo, in quanto in sua presenza esse stesse sono legate a potenzialità caratterizzanti dell’individuo e quindi fonte di autorealizzazione e in grado di portare all’eccellenza prestazionale grazie alla forza della motivazione intrinseca (che fornisce energia per l’esercizio intenzionale, il quale fa operare nella zona di apprendimento, si acquisisce più padronanza e si progredisce, si cercano sfide più impegnative da affrontare con capacità di livello superiore, si prolunga lo stato di Flow, iterativamente).

3° PILASTRO: PIANO D’AZIONE

Nell’autobiografia l’ultimo pilastro è presente costantemente come elemento di sfondo: i vari atleti diversi tra loro per potenziale, fase del proprio sviluppo, etc., hanno sempre già piuttosto chiaro il loro Futuro Desiderato, hanno già un obiettivo ben definito (spesso anche S.M.A.R.T.E.R) e spesso un piano d’azione (con anche step intermedi, KPI di riferimento, etc.) ‘riscaldato’ da forte motivazione interna e utilizzo di competenza calde, quindi non vi sono esempi diretti in cui gli atleti/coachee lavorano con l’autore/Coach specificatamente su questo pilastro, farina del sacco dell’atleta/coachee. Si percepisce però la sua presenza costante, infatti laddove l’autore/Coach e l’atleta/coachee lavorano sull’attivazione della mobilità interna costruendo e consolidando i primi due pilastri, è come se nella Mappa del Coaching l’autore/Coach stia accompagnando l’atleta/coachee nelle prime tappe in cui da solo non riesce a progredire costruendo il ponte verso quelle successive di mobilità esterna in cui si sente invece già autonomo.

Conclusione

Inizialmente avevo pensato a questo lavoro come ad una metafora per visualizzare in maniera “laterale”, “colorata”, motivante il Business Coaching e sono convinto che possa ancora svolgere questa funzione, ma nel verbalizzarla per iscritto i contorni della metafora cestistica si sono sempre più fusi con quelli del Business Coaching, tanto che ora rileggo gli episodi raccontati nel libro immaginandoli con naturalezza impersonati da un Business Coach e il manager di turno e leggendovi esempi di applicazione di un metodo per allenare e sviluppare il potenziale del singolo … solo che indossano entrambi una tuta e sono in una palestra … ma un Business Coach creativo potrebbe trovarsi anche in questa situazione …

Il libro di I.R. può quindi essere una lettura diversa e leggera per i più, interessante per chi è appassionato di pallacanestro come me, uno spunto credo utile per futuri Coach (Business o altro) che in queste pagine possono trovare un’esperienza concreta in cui nei diversi aneddoti raccontati leggere la manifestazione degli effetti della potenza del metodo.
Non riportato in questo estratto, nella tesina vi è anche un breve parallelismo sul C.A.R.E.®: anche per l’autore/Coach il percorso con l’atleta/Coachee si svolge attraverso l’allenamento di un meta-potenziale che ha tra i suoi elementi costituenti consapevolezza, autodeterminazione, responsabilità ed eudaimonia.
Nota finali: l’autore non dà un nome al suo modo di operare con gli atleti (“l’arte che ho potuto imparare”) e anzi dice addirittura di non avere un metodo; personalmente lo leggo come sinonimo di avere un metodo – basato come visto su Relazione e Sviluppo del Potenziale (e C.A.R.E.®) – che però necessita di volta in volta di un’unicità dipendente dall’atleta/coachee.

 

Massimo Arosio

 

BIBLIOGRAFIA
(1) I. Ravin, A canestro, Baldini & Castoldi, 2016
(2) M. Seligman, C. Peterson, Character Strengths and Virtues: A Handbook and Classification, American Psychological Association, Oxford University Press
(3) G. Spence, presentazione durante i lavori della IV conferenza di Evidence-Based Coaching (Giugno 2010)

 

 

Nota: Il concetto di C.A.R.E.® di Sessione Zero e di Relazione Facilitante sono di proprietà intellettuale della Scuola INCOACHING®

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