Categoria: Il Coaching in azienda

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Il Coaching in azienda

Chi era costui? Come trasformare un insuccesso in un progetto di sviluppo

Nel mio percorso di sviluppo professionale, ho avuto la fortuna di lavorare per grandi aziende multinazionali che mi hanno permesso di svilupparmi sia come persona che come professionista.

L’utilizzo dei più innovativi metodi di sviluppo professionale, sia individuali che di gruppo, è uno dei mantra di queste organizzazioni e costituisce uno dei principali vantaggi di farne parte.

Il tentativo di comprensione e razionalizzazione delle esperienze, mi porta a considerare meno felici quelle che non capisco che come tali vengono parcheggiate in un limbo dei miei ricordi ma non cancellate, in attesa della “folgorazione”.

Gli occhiali del Coaching mi permettono oggi di rileggere il percorso di coaching aziendale che ho avuto o forse sarebbe più corretto dire “subito” alcuni anni fa in chiave diversa; il susseguirsi di errori che ora capisco, sono alla base del suo insuccesso. Cercherò quindi di evidenziarne le mancanze allo scopo di ribadire l’importanza di seguire il processo per arrivare allo sviluppo autodeterminato del Coachee.

Dopo un lungo processo di selezione, sono stato scelto per guidare un importante Stabilimento; catapultato in una realtà complessa, con una non chiara ripartizione delle responsabilità tra il gruppo di gestione locale e le figure globali internazionali dell’organizzazione a matrice.

Nel caos organizzativo che cercavo di dipanare, la proposta del mio responsabile di propormi un percorso di Coaching con un Coach professionista, mi era sembrata quindi una ancora di salvezza ed un segno di attenzione da parte dell’azienda.

Il Coach (in teoria con la C maiuscola) scelto, era l’ex responsabile globale delle risorse umane, che, una volta in pensione, aveva intrapreso il percorso di Business Coach.

Affidarmi a lui mi avrebbe permesso di trovare soluzione alle mie difficoltà, sarebbe stata una fortuna per me avere accesso a tale figura esperta delle dinamiche aziendali, che avrebbe certamente velocizzato e migliorato il mio inserimento.

Il Coach era la persona a cui avrei dovuto delegare la soluzione delle mie difficoltà. Se avessi già allora indossato gli occhiali, mi sarebbe stato subito chiaro che il presunto Coach era in realtà un consulente / mentore.

Il tipo di approccio/insegnamento che il Coach avrebbe seguito, non sarebbe stato maieutico socratico ma piuttosto di esempio, guida e correzione; le mie potenzialità dovevano essere allenate per essere funzionali all’azienda. Si poneva quindi come un sofista esperto a cui io avrei dovuto affidarmi.

Dalla comunicazione della decisione aziendale all’inizio del percorso, non ci fu alcuna Sessione Zero di triangolazione (Committente, Coach e coachee), in cui condividere il progetto, fissare ruoli e responsabilità, concordare metodo e processo, sostituita da una sbrigativa informazione sul fatto che avrei iniziato la settimana successiva e che il numero di sessioni sarebbe stato distribuito nei prossimi tre mesi con una cadenza di due settimane tra l’una e l’altra.

Il check-in su cui dovevo lavorare prima della sessione iniziale, era costituito da una mia autoanalisi di dove ero rispetto alla lista di valori e caratteristiche che l’azienda riteneva fondamentali e che avrebbe premiato.

La mia soddisfazione di aver accesso ad un aiuto, ad una guida nel mio percorso di integrazione, ha quindi presto lasciato lo spazio a frustrazione e paura: io “Non ero OK”.

Per la prima volta nella mia carriera mi sono sentito insicuro, percepivo che il coach (volutamente da ora in poi con la c minuscola) sarebbe stato usato dall’azienda come un giudice valutatore e non come un imparziale e non giudicante supporto.

Il messaggio dell’azienda mi era ora molto chiaro, “tu non sei OK, mentre è OK il responsabile dell’altra parte dello Stabilimento che nonostante sia stato assunto insieme a te non ha bisogno di Coaching, si è integrato velocemente ed agisce al meglio il proprio ruolo.

Mi sono quindi approcciato alla prima sessione con una ansia difficile da controllare anche se permaneva la curiosità di scoprire un approccio nuovo e di cercare di coglierne gli aspetti metodologici.

Nella prima sessione, una volta concordato l’obiettivo finale del percorso, ho avuto conferma che la geometria della relazione che il coach aveva instaurato, non era facilitante. La prima sessione iniziò con il feedback iniziale dell’esercizio di check-in. Feedback costruito per sottolineare le mancanze da me presentate nell’autoanalisi evidenziando di conseguenza le aree su cui avrei dovuto lavorare con attenzione nel nostro percorso.

Il coach non aveva mostrato un chiaro disorientamento positivo e nemmeno apertura e supporto nei miei confronti, non ero io al centro, ma piuttosto le mie mancanze che dovevo colmare come se le stesse potessero avere una vita propria.

Era evidente che il coach aveva creato una relazione non simmetrica, i ruoli non complementari (il coach si poneva sul piedistallo in una posizione giudicante), persino il contenuto non era asimmetrico, gli occhiali del Coaching mi confermano la disfunzionalità di questa relazione.

La relazione che si era creata tra di noi era solo professionale; dal momento che riconoscevo in lui esperienza e capacità, ero intrinsecamente portato a cercare una delega alla soluzione dei miei problemi.

Delle 4A della relazione facilitante, l’accoglienza e l’ascolto erano presenti, ma non coglievo autenticità e tanto meno alleanza. Mi era chiara invece l’alleanza tra il coach e la Committente, mi sentivo come un traballante vaso di coccio tra vasi di ferro.

Il coach mostrava molta fiducia in sé e nel metodo, traspariva di converso la poca fiducia in me e la non ricerca della relazione.

Il tentativo di presentare i miei dubbi era stato rispedito al mittente sia dal coach durante la sessione che dall’azienda come rinforzo del messaggio, si ribadiva l’importanza del progetto che già aveva avuto successo nello sviluppo di altri, dovevo solo aspettare ed avere fiducia.

La mia curiosità intellettuale iniziale si era velocemente spenta, mentre l’ansia ne era uscita rafforzata, la non relazione mi aveva portato a chiudermi in un atteggiamento difensivo, a non aprirmi non fidandomi, vivevo la frustrazione di non poter interrompere il progetto.

L’obiettivo di sessione era scelto tra le diverse difficoltà che avevo avuto nel periodo lavorativo tra una sessione e l’altra, sia di comunicazione, che di gestione del gruppo.

La risoluzione dei singoli casi di sessione in sessione con il relativo lavoro extra sessione, mi avrebbe poi dovuto portare al risultato di raggiungere il mio piano strutturato di agire il ruolo in maniera completa secondo le aspettative dell’azienda.

Le domande del coach erano semplici e coincise, per lo più aperte o a doppia scelta, la mia narrazione veniva guidata e limitata alla fase fenomenica, agentiva e strutturata.

Era evidente che il progetto era imperniato per lo più sul pensiero logico razionale, con limitato spazio al pensiero laterale. Il coach indossava sempre il solito cappello e non riteneva utile “sfruculiare” i miei

pensieri con domande di mobilità che stimolassero la parte emozionale ed evolutiva che evidentemente erano ritenute non funzionali a quanto gli era stato richiesto dall’azienda.

Mi piace molto cercare di riassumere la realtà fattuale ed esprimermi con metafore ed esempi, ma questi non venivano colti né tantomeno mi venivano restituiti.

Le sessioni si ripetevano quindi in un ping-pong di domande e risposte con lo scopo di arrivare al piano di azione, molto spesso integrato dal coach stesso se ritenuto non sufficiente.

La verità che mi veniva presentata nelle diverse sessioni ed alla quale dovevo tendere, era quella dell’azienda, dovevo quindi capire in fretta ambiente e contesto, per migliorare le mie performances, senza farmi condizionare da convinzioni limitanti frutto di esperienze pregresse.

Una delle poche fasi allineate al metodo, è stata l’identificazione delle mie competenze volte allo sviluppo del potenziale; analisi figlia però più della esperienza del coach nella gestione delle risorse umane.

Mi è facile riconoscere oggi, che non veniva fatta differenza tra competenze calde e fredde, l’unico scopo era il risultato e non il processo.

Il coach era molto bravo nel creare la motivazione esterna, di curare lo sviluppo del sapere e del fare, senza curarsi dell’allineamento dell’obiettivo con l’essere.

Il percorso di Coaching non aveva raggiunto il suo scopo di portarmi ad agire il ruolo vivendolo in uno stato di “flow” in cui mi sentivo OK in un contesto OK stimolante ed appagante, ma aveva anzi confermato i miei dubbi su quanto io fossi allineato al ruolo che mi veniva richiesto.

Indossando gli occhiali di oggi posso affermare con chiarezza che la scelta iniziale era giusta, avevo bisogno di un aiuto, ero in una chiara crisi di autogoverno, avevo bisogno di Coaching, con la C maiuscola, però.

Le competenze apprese nel corso di Coaching Professionale mi hanno confermato di come possa essere uno strumento importante per supportare ed aiutare lo sviluppo dell’impresa. Non per niente le grandi aziende del mondo anglosassone usano il Coaching dagli anni ‘80 del secolo scorso, ero quindi curioso di capire l’utilità del metodo nel mondo del Management.

L’idea iniziale che avevo di utilizzare il Coaching per lo sviluppo dei miei collaboratori, è stata presto disattesa, dall’apprendere che la relazione di Coaching, per essere facilitante, deve essere simmetrica. Il ruolo che ho nei loro riguardi, mi impone di avere responsabilità sul risultato, posso usare alcuni utili strumenti per sviluppare il potenziale dei miei collaboratori, ma non posso agire come Coach nei loro confronti.

Nelle mie diverse esperienze professionali, forse il problema più ricorrente che ho trovato, è la tendenza delle diverse funzioni aziendali a lavorare a silos. Tale atteggiamento porta inevitabilmente ad indebolire se non ad azzerare lo spirito di lavorare in gruppo con un obiettivo comune. Ho sempre avuto l’idea che lo sviluppo del Management abbia avuto come sottoprodotto indesiderato tale approccio, portando a situazioni in cui gli effetti collaterali sono superiori a quelli positivi.

Le diverse teorie di sviluppo organizzativo contengono “in nuce” i propri tarli che se non gestiti e prevenuti, possono portare al proprio fallimento; forse ha davvero ragione Schumpeter nell’affermare che solo la “distruzione creativa” può permettere lo sviluppo economico.

L’idea di Drucker di declinare gli obiettivi aziendali in obiettivi individuali, l’esasperazione del Goal Setting di Locke e Latham come fonte principale ed a volte unica di focalizzazione degli sforzi degli individui, la crescente importanza della parte variabile della retribuzione (che risponde alla sola motivazione esterna), la spinta a risultati di breve durata perdendo di vista lo scenario di medio/lungo termine; hanno nella mia

esperienza reso accettabili comportamenti distorsivi ed opportunistici dei singoli manager che portano, inevitabilmente, ad avere un impatto negativo sui risultati aziendali.

Da tempo quindi la sfida di prevenire e combattere le barriere organizzative è stata al centro della mia agenda.

Il tema è complesso e di difficile soluzione se non con un cambio di paradigma che forse potrebbe essere forzato dalla disintermediazione della catena del valore che sarà conseguenza della crisi pandemica in atto.

Mi sono chiesto, quindi, se e come il Coaching possa essere d’aiuto nel circoscrivere l’approccio a silos, nel migliorare l’integrazione tra le diverse funzioni, creando uno spirito di appartenenza verso un obiettivo comune nell’ambito di una relazione professionale.

Sono rimasto molto colpito dalla grandi potenzialità della relazione facilitante, dall’alleanza incondizionata che si crea tra Coach e coachee, dalla totale assenza di giudizio, dalla relazione meta in cui utilizzando le parole del Dottor Campione “non vi può essere conoscenza dell’altro se siamo talmente distanti da perdere contatto con la sua soggettività, così come se ci poniamo talmente vicini da perderci in lui”, dallo sviluppo autodeterminato delle potenzialità del coachee, che ho pensato di poterlo applicare in una relazione aziendale professionale “inter pares”.

Sulla falsariga dello sviluppo a fine anni 90 dell’approccio di Miglioramento continuo che ha portato alla formazione e sviluppo di “esperti interni” del nuovo processo; ho pensato che sarebbe interessante ed importante sviluppare in azienda la cultura del Coaching Professionale.

Si potrebbe pensare ad un progetto aziendale in cui la prima linea di Management o quanto meno i responsabili delle funzioni / divisioni ottenga la certificazione di Coaching Professionale. Il progetto poi si potrebbe estendere ad altre parti dell’organizzazione aziendale.

Ogni responsabile di funzione sarebbe quindi Coach e coachee allo stesso tempo dei propri pari. In tal modo sarebbe garantita la simmetricità della relazione e la complementarità dei ruoli.

Il Committente sarebbe la funzione Risorse Umane che presenta il progetto ai singoli Coach/coachee organizzando setting, processo, durata e facendo una prima scelta delle singole relazioni di Coaching. Sarebbe poi responsabilità delle Risorse Umane definire con i vertici aziendali il piano strutturato che si vuole raggiungere per ogni funzione a fine percorso.

Nell’incontro preliminare successivo, il Coach verificherebbe la coachability e nel caso di assenza della stessa sarebbe compito della funzione HR cambiare le coppie. Unico punto del patto di coaching che non potrebbe essere rispettato, essendo Coach interni, sarebbe la definizione del rapporto economico. In realtà lo stesso sarebbe indirettamente garantito dal fatto che il processo di Coaching dovrebbe necessariamente realizzarsi all’interno delle ore di lavoro. Si potrebbe inoltre pensare ad un premio individuale da corrispondere al Coach sulla base dei risultati raggiunti dal coachee certificati in maniera oggettiva nel check-out di chiusura programma.

La relazione di Coaching, l’alleanza che si andrebbe a creare, il contribuire allo sviluppo del potenziale del coachee, l’identificazione delle competenze calde, potrebbe permettere quindi di aggiungere alla motivazione esterna legata agli obiettivi, quella interna di sviluppo, con focalizzazione sul processo e non più solo sul risultato.

Il processo se ben attuato porterebbe quindi a generare nelle diverse funzioni un senso di appartenenza allineando i diversi comportamenti agiti in un flusso ideale comune intrinsecamente motivante.

Il Coaching sarebbe quindi un importante strumento del cambio di paradigma e della rimozione delle barriere nonché intrinsecamente propedeutico allo sviluppo del potenziale dei dipendenti.

 

 

 

Matteo Bertolini
Coach Professionista
Global Head Pharmaceutical Operations – Bracco Imaging 
Milano
mbertolini@mip.polimi.it

 

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