
Coaching e Filosofia Marziale: strumenti dai ‘Cinque Animali’ del Kung Fu
Sia durante il ciclo di lezioni tenutesi in aula sia nello studio del testo “L’Essenza del Coaching”di Pannitti e Rossi, mi sono reso conto delle innumerevoli affinità che intercorrono tra la relazione facilitante del Coach con il suo Coachee e il legame dell’insegnante con il discente in campo marziale, in rapporto alla mia esperienza come praticante di Kung Fu. Lo stimolo concettuale da cui parto è il seguente: “definiamo il Coaching un metodo, anziché una tecnica o una serie di tecniche. […] è molto di più che la semplice applicazione automatica di una serie di tecniche riproposte sistematicamente a qualsiasi persona, in qualsiasi tipo di richiesta di intervento. […] ogni volta che un Coach si trova di fronte ad un nuovo Cliente non sa, e non può sapere, dove quest’ultimo lo condurrà, per quale via, in quale direzione” (Pannitti, Rossi, 2012).
Il richiamo iniziale alla definizione del Coaching come metodo, invece di una serie di tecniche, costituisce il presupposto base della pratica marziale, il cui obiettivo è l’applicazione di una metodologia olistica che permetta all’allievo di scoprire le proprie potenzialità per riuscire a esprimerle in una modalità unica, in linea a tratti comportamentali specifici della sua persona. L’arte marziale diventa dunque un cammino di scoperta, in cui la tecnica è solo uno strumento funzionale al comprendere “il come si fa”, mentre il cuore di uno stile si lega al proprio ‘essere’ da una lezione all’altra, così come la consapevolezza del Coachee prende vita di sessione in sessione, qualsiasi sia l’esito a cui tale percorso possa condurre.
Ecco, quindi, il distacco da quell’automatismo tecnico in cui spesso s’incappa in ambito marziale, dove il fascino della “mossa giusta”, quale “domanda potente” nel Coaching, assume un valore sproporzionato e di poco senso rispetto a ciò che accade nella mente e nel corpo del praticante. Quest’ultimo, infatti, apprendere più facilmente una sequenza o un movimento se tale tecnica specifica “smuove” dentro di lui un determinato sentire, al fine di poterla fare sua e capire come utilizzarla al meglio.
In campo marziale, si passa dall’imitare superficialmente la movenza di un Animale a concepirne la tecnica per il significato di cui è portatrice: ad esempio, l’artiglio della Tigre non viene più agito come una semplice zampata nei confronti dell’avversario, bensì come un modo di esternare la propria forza emotiva in un colpo che, sulla base dell’impeto interiore, assumerà la forma di un artiglio felino dato dall’allineamento tra volontà difensiva (mente), energia dinamica (emozione) e azione immediata (corpo).
Nella relazione facilitante (Pannitti, Rossi) del Coaching, in maniera analoga, quella che all’inizio è una domanda esplorativa da parte del Coach, funzionale alla raccolta informativa di ciò che caratterizza la crisi di autogoverno del Cliente, diventa poi uno stato d’essere del Coachee, ovvero, stimolando una maggiore consapevolezza, la domanda si fa espressione di una riflessione profonda (mente), spesso accompagnata da molteplici sfumature collaterali (emozioni) che trova anche nella fisicità un suo riscontro esterno (corpo), per cui:
“Sul piano dell’emissione, occorre dunque la massima attenzione del Coach non solo alle parole e frasi pronunciate, ma anche ai suoi comportamenti, alla mimica ed ai gesti, ai movimenti e all’abbigliamento, all’atteggiamento particolare e complessivo che […] fanno da supporto alla comunicazione logico-verbale”
(ibidem).
In ambito marziale, il praticante, nella sua capacità di interiorizzare la tecnica, può giungere a superare il livello imitativo dell’Animale, facendolo proprio e imparando a conoscerlo sulla base delle attitudini e potenzialità personali. Lungo questo cammino, il cui dipanarsi, come nel Coaching, comporta un confronto diretto con la realtà quotidiana nella quale il praticante/Coachee è inserito, la figura dell’insegnante si mantiene sulla superficie, si appresta a trasmettere delle tecniche che, all’apparenza, sembrano agire su di un livello prettamente cognitivo, mentre il fine continuo è di operare sull’intera persona del discente.
L’utilizzo di pugni, palmate, spazzate e calci stimolano mente, corpo ed emozioni, fungendo da canali propedeutici alla crescita interiore del praticante, il quale all’inizio ha spesso fame di apprendere, può desiderare risposte immediate o tecniche avanzate, come in preda a una ricerca ossessiva di una soluzione “all inclusive” già preconfezionata. L’insegnante si fa riempire da quest’onda emotiva, restandone però distaccato, senza farsene coinvolgere, pena il rischio di una sorta di autocelebrazione della propria competenza che porrebbe il discente in uno stato di semi dipendenza, in cui i suoi progressi sarebbero concretamente misurabili solo se legati a un irraggiungibile perfezionismo.
La distanza dalle emozioni ha un duplice vantaggio: (1) consente all’insegnante di inquadrare dall’esterno la situazione, i vissuti, i conflitti, i bisogni e i desideri in cui il praticante stesso si barcamena; (2) permette al discente di descrivere e raccontare la sua realtà in maniera sfaccettata, sapendo di poter contare sulla presenza, sull’ascolto e sulla disponibilità di una Persona che rappresenta un punto di riferimento, dotato comunque di:
“Capacità empatica, in quanto assumendo almeno parzialmente il punto di vista dell’altro è possibile capirlo meglio e quindi accoglierlo per quello che egli è e pensa, per quello che egli prova rispetto a quella determinata situazione. […] accogliere l’altro è anche “fargli spazio”, “dargli il benvenuto”, lasciare che sia lui ad essere il vero e unico protagonista sulla scena”
(ibidem).
Di conseguenza, l’apporto esperienziale del praticante è la chiave di volta del cammino marziale, in quanto non solo dà una misura oggettiva e reale dell’impegno che il discente sta mettendo nel proprio percorso ma permette all’insegnante di operare un monitoraggio costante sui suoi progressi, resistenze o ricadute. Rifacendomi ai Cinque Animali del Kung Fu, ho trovato un forte parallelismo con gli strumenti a disposizione del Coach nell’articolarsi della relazione facilitante.
Il Leopardo (Pao) si caratterizza per colpi continui, basati sulla spinta dinamica data dal movimento del corpo; tale elasticità permette di acquisire una rilevante velocità nel saper cambiare repentinamente angolazioni di contrattacco, al fine di combinare più traiettorie in fase di difesa e spostamento.
Nel Coaching, “la modalità” del Leopardo è ben trasferibile alla capacità del Coach di identificare il terreno su cui si muove il Cliente mediante la flessibilità delle domande, adattandosi alle difese, agli “attacchi”, alle reazioni emotive che il Coachee può esprimere in sessione; tale strumento risulta assai funzionale al mantenimento di una fluidità dialogica che, priva di interruzioni, consente lo svilupparsi della relazione.
La Tigre (Hu) sferra i suoi colpi generando un’intensa energia, basata su un perfetto allineamento tra forza dinamica e bilanciamento del corpo in ogni sua espressione, per esercitare un controllo mirato nel momento in cui tale energia si scarica sull’avversario; nel Coaching, la Tigre è rilevabile quando il Coach, una volta identificato il terreno, procede all’esplorazione del percepito del Cliente, mantenendo forza e stabilità al tempo stesso.
Così, mentre la prima capacità gli è fondamentale per resistere agli eventuali urti incontrati lungo il cammino esplorativo, la stabilità gli permette di restare a un’adeguata distanza dai risvolti emotivi che il racconto del Coachee potrebbe generare. Ecco, quindi, l’utilizzo del silenzio quale cassa di risonanza dei vissuti e dell’esperienza del Cliente, nonché sintesi perfetta dell’unione concettuale tra forza e stabilità, così come una tigre nascosta nell’erba in attesa del momento più opportuno per balzare sulla sua preda.
Il Serpente (She), non avendo zampe per muoversi come gli altri animali, utilizza i movimenti peculiari alla sua struttura corporea, generando torsioni che gli consentono di spostarsi e colpire come un elastico. Tra le altre, due caratteristiche del serpente sono la gestione di uno stato mentale concentrato e la capacità di colpire i punti vitali in modo fulmineo; l’intima connessione tra focus e velocità d’azione permette di mantenere un alto livello di attenzione su se stessi, sul proprio avversario e sull’ambiente circostante.
Nel Coaching, l’utilizzo di “domande a spirale” (Pannitti, Rossi) incarna perfettamente l’agire del Serpente; dopo aver iniziato a esplorare il sentiero narrativo del Cliente, il Coach inizia “ad avvolgersi” intorno a quei nuclei tematici che rileva come tracce da approfondire. Pertanto, si tende a creare una “circolarità” semantica funzionale all’analisi, alla ripresa o messa in discussione di segnali non verbali, tensioni o ripetizioni espresse inconsapevolmente dal Coachee, così come un serpente che, silenzioso, striscia sul terreno, osservando con attenzione ciò che accade intorno per adeguarvisi di conseguenza.
La Gru (Hok) incarna il concetto di equilibrio, sia fisico che interiore; le sue capacità difensive e di contrattacco sono caratterizzate da movimenti precisi, morbidi e leggeri, finalizzati a colpire l’avversario con tecniche bilanciate. Poiché la gru lavora sullo sviluppo sia dell’armonia interna sia della tensione dinamica del corpo, è di primaria importanza che le tecniche esterne di contatto “rispecchino” la valenza dello stato interiore, onde evitare colpi inefficaci e alterazioni emotive che porterebbero la gru a perdere il suo equilibrio.
Nel Coaching, lo strumento del feedback d’ascolto diventa l’applicazione pratica della leggerezza con la quale il Coach “sorvola” la situazione portata dal Cliente, ponendo dei punti di controllo per verificare di aver compreso, di aver notato qualcosa “nel volo” narrativo di una metafora creata, di aver un riscontro circa l’allineamento e “l’equilibrio” nella simmetria dell’interazione.
Il Drago (Loong), attraverso la gestione del respiro, sviluppa la capacità di veicolare, aumentare o diminuire la propria forza, a seconda delle circostanze; il drago si pone su un atteggiamento di difesa morbida e, sulla base dell’impatto con cui un colpo gli viene inferto, si appropria dell’energia avversaria, restituendola in maniera proporzionale, se non superiore, sotto forma di contrattacco.
Nel Coaching, “la strategia” del Drago si sposa con la restituzione della delega da parte del Coach, al fine di impedire al Cliente di rovesciare sul Coach stesso la responsabilità di attuare determinate scelte, agite espressamente dal Coachee. Tale dinamica (ri) porta il Cliente a riempire uno spazio di auto riflessione personale, che gli permetta di restare focalizzato “sul suo interno”, senza cercare “all’esterno” soluzioni o consigli adatti alla sua situazione di crisi.
Il metodo del Coaching, così come l’apprendimento di un’arte marziale, è un viaggio di scoperta continuo; si tratta di una relazione profonda, in cui lo sviluppo del potenziale del discente/Cliente sul piano mentale, emotivo e tecnico supera di gran lunga l’apporto facilitante dato dall’insegnante/Coach.
Federico Polidori
Training Specialist, Life Coach, Trainer
Cologno Monzese (MI)
federicom18@libero.it
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