Categoria: Coaching… all’oscuro

Categoria: Coaching… all’oscuro

Coaching… all’oscuro

La giornata si era quasi conclusa, mancava solo un appuntamento prima delle vacanze di Natale. Suonò il campanello e, vista la pioggia, mi affrettai ad andare ad aprire.

Nel tragitto verso la porta di ingresso, mi trovai a pensare a quanto fosse stata un’esperienza inusuale sin dall’inizio.

Il cliente volle fare l’incontro preliminare da remoto, su una piattaforma di sua proprietà (“per motivi di sicurezza”) e a telecamere spente. Ricevetti successivamente la visita del suo assistente, un giovane decisamente svelto (di mano e di testa), che ha perquisito il mio studio “per garantire sicurezza e discrezione al mio assistito”. Dovetti firmare addirittura un documento nel quale mi sarebbe stata addebitata una penale, ingestibile per il 99.9% della popolazione mondiale, nel caso in cui avessi trasferito un singolo dettaglio al di fuori della relazione con il coachee. Ammetto che, al sentire le condizioni, mi ero fatto una risata pensando a uno scherzo. Poi, capito che non lo era e seppur riluttante a un tale livello di controllo, sottoscrissi l’accordo per due motivi: il nostro contatto comune mi garantì assoluta affidabilità, sottolineando anche la delicatezza dell’incarico e una certa levatura del cliente stesso (e di Jim mi fido ciecamente); nell’incontro preliminare ho recepito una sincera esigenza di aiuto, comunicata con un controllo e una razionalità che raramente avevo percepito in vita mia.

“Affronto quotidianamente problemi di diversa natura, ma mai nessuno di questi è economico, glielo assicuro”, mi disse il cliente non appena provai ad accennare all’onorario.

Alla porta un uomo alto, con un’età indefinita tra i 50 e i 60 anni e decisamente prestante, vestito con un elegante completo e un dolcevita scuri, si apprestava a chiudere l’ombrello.

Dopo i convenevoli, feci per farlo entrare: “prego, si accomodi. Possiamo darci del tu?”. Fino a quel momento, le nostre conversazioni erano state piuttosto formali.

Rispose con un’espressione seria, ma con cortesia: “certo.”

“Andiamo nel mio studio, faccio strada. Intanto ti posso offrire qualcosa? Anche solo un bicchiere d’acqua?”. “A posto così, grazie”, rispose mentre si guardava intorno.

Mentre entravamo nello studio per la sessione, ebbi la sensazione che il mio cliente analizzò in un singolo colpo d’occhio il contenuto della stanza nei minimi particolari. Sottoscritto compreso.

Percepita la fretta di cominciare, tagliai sui convenevoli: “accomodati, avremo a disposizione circa 45 minuti. Di cosa vuoi parlare?”

Si sedette, tradendo un po’ di rigidità: “del mio… secondo lavoro. Al di là delle incombenze come AD dell’azienda di famiglia, dopo alcune vicissitudini personali ho sentito il bisogno di avere un ruolo attivo nella vita cittadina, per il benessere generale e la tranquillità delle persone. Impegno che tuttavia mi ha prosciugato, e ora mi sto domandando se e come portarlo avanti.”

Attesi qualche secondo per verificare che avesse ultimato il flusso del pensiero, poi domandai: “Come mai te lo stai chiedendo?”

“Si tratta di un’attività logorante sia dal punto di vista fisico che mentale, non ci si può distrarre né concedersi un margine di errore minimo, c’è in gioco il benessere di una città intera. Mi sono già preso una pausa che dura tuttora e sto male nello stare in disparte a guardare, sento che lui… che qualcosa si agita dentro di me. Ma non sono più quello di 15 anni fa.”

Lo vidi rilassarsi un po’ dicendo l’ultima frase, mi diede la sensazione di parlare a se stesso piuttosto che rispondere alla domanda.

“Che cosa vuoi ottenere in questa sessione?”, chiesi.

Riprese immediatamente il tono deciso e perentorio: “Ho bisogno di capire pro e contro di continuare con questa mia… seconda identità. Ho avuto modo di pensare a lungo sia a cosa manterrei che a cosa lascerei, ma ancora non riesco a trovare la giusta prospettiva.”

“Quindi, alla fine di questa sessione, cosa vuoi ottenere in concreto?”

Aveva capito che non fosse sufficiente. Dopo aver riflettuto, rispose: “Oggi voglio decidere se continuare. Poi valuterò il come, quale che sia la scelta.”

Continuai: “cosa ti farà capire che hai raggiunto l’obiettivo?”

Guardò fisso di fronte a lui, come se vedesse qualcuno: “immaginerò di fronte a me le persone che ho affrontato finora e coloro che mi sono state vicine… e sentirò che è la scelta corretta”. “Ah, ma allora non è tutto muscoli e razionalità”, pensai. Fu una buona notizia.

“In una scala da 1 a 6, dove 1 è il minimo e 6 è il massimo, dove sei oggi rispetto a questa decisione?”

Aggrottò la fronte, ma tradì un certo fastidio nell’essere oggetto di domande serrate. Dovetti regolare un po’ il ritmo. “Di solito ho confidenza con i numeri, stavolta è meno immediato… un 4?”

Rimasi in silenzio, per dargli il tempo di riformulare la risposta sotto forma di affermazione e non di domanda, perché ebbi la sensazione che non avesse risposto con il dovuto impegno.

“Facciamo 3.” disse.

“Come mai proprio 3?”, chiesi di rimando.

“Nella mia testa, so cosa devo fare. Ma devo analizzare perché sono frenato nel farlo. Voglio arrivare al 6”. Le mezze misure non erano contemplate, a quanto pare.

“E cosa c’è dietro al 6?” chiesi.

La risposta fu piuttosto risoluta: “non mi posso permettere incertezze. Troppe persone contano su di me”. Non vi erano dubbi su quanto fosse fondamentale arrivare a quel 6.

Passando all’elaborazione, provando a partire dal lato emotivo: “hai detto che al momento hai preso una pausa dall’attività di cui stiamo parlando. Cosa senti?”

Si agitò impercettibilmente sulla sedia, respirando profondamente: “mi sento … in trappola. È come se mi fossi impegnato per anni e, adesso, la situazione non è né migliore né peggiore di quando ho iniziato. Ma se mi facessi da parte, potrebbe cadere tutto”.

Fissava il tavolinetto di legno di fronte alle nostre sedie, dove tenevo gli strumenti per i work-in: post-it, fogli bianchi, matite colorate. Ammetto che, dopo una giornata di lavoro, non ci fosse esattamente ordine. Diciamo che regnava un po’ di… caos.

Mi diede l’idea che si stesse chiedendo a cosa servissero, ma anche che stava ancora cercando di rispondere alla domanda, così rimasi in silenzio.

“E non posso lasciarle sole”, continuò, “le persone che mi sono vicino, intendo. Dick, Barbara… parlo della figlia di Jim, sai? Dovresti conoscerla… Jim stesso e Alfred a cui devo tutto. Lasciare completamente a loro il campo mi preoccupa. Se lo lascio a loro, lo lascio anche… agli altri”. La situazione sembrava davvero complessa.

“Immagina di avere una visuale privilegiata, diciamo di trovarti sopra un grattacielo…” cominciai, ma mi interruppe. “Ah, lo facevo spesso!” disse con un sorriso tra il sarcastico e l’amaro. Per la prima volta nella sessione, sembrò lasciarsi andare. Durò molto poco.

Accennando un sorriso per empatizzare con la sua battuta, continuai: “…sei sopra a questo grattacielo e osservi questo campo. Che sensazione hai?”

Inarcò un sopracciglio e mi guardò. “Mi stai domandando cosa vedo?”

Realizzai che continuare a chiedergli delle sue emozioni era una cosa inaspettata per lui, perciò mi convinsi che dovevo continuare su questa strada. “Ti sto chiedendo cosa provi”, risposi.

Strinse i pugni, non era facile per lui rispondere a quelle domande a quanto pare: “ho sentimenti… contrastanti. Sono grato a quelle persone, perché con la volontà di portare avanti la mia… la nostra missione, mi stanno concedendo la possibilità di fermarmi. Allo stesso tempo, sono preoccupato per loro, per la loro incolumità.”

“Di cosa è fatta questa preoccupazione?”, chiesi per fare in modo che scavasse dentro di sé ancora un po’.

“Hanno a che fare con una situazione al limite, sono giovani e forse un po’ incoscienti, per quanto preparati.” rispose con un filo di voce.

“Adesso ti chiedo di rimanere in alto, sul grattacielo. Di continuare a osservare la situazione, ma con la consapevolezza di aver fatto la tua scelta. Ti va di disegnare la scena?”

Il suo sguardo si posò prima sul tavolinetto e sulle matite, poi su di me con un’espressione tra l’incredulo e l’ironico. “Adesso mi stai chiedendo di fare dei disegnini? Davvero?”, e a quelle parole sentii un brivido freddo lungo la schiena. Ma ero convinto di volerlo portare su un altro piano, o almeno tentare di farlo.

“Solo se ne hai voglia”, risposi. L’espressione del mio cliente mutò impercettibilmente esprimendo una certa curiosità e, accennando un sorriso e uno sbuffo, cercò la matita colorata adatta. Prese la nera.

Spese diversi secondi guardando il foglio, poi chiuse gli occhi e sospirò. Quando li riaprì, aveva un’espressione calma, e spese qualche minuto per tracciare sul foglio ciò che aveva dentro.

“Non è esattamente un capolavoro”, disse riponendo con cura la matita, “Alfred me lo diceva sempre che avrei dovuto metterci più impegno durante le classi di arte”. L’espressione sul viso di Bruce si addolcì, percepii un moto di nostalgia.

“Non siamo qui per valutare le tue doti artistiche”, provai a rassicurarlo bonariamente. “Dimmi, cosa vedi?”

Fui testimone di una metamorfosi. L’uomo stanco, che cercava di nascondere le sue incertezze del momento dietro a una corazza di risolutezza e razionalità, non c’era più. Al suo posto, un individuo con la schiena più dritta, il respiro controllato, lo sguardo penetrante.

“lo vedo… ciò che devo essere”. Percepii distintamente che questo era un momento decisivo.

“Cosa ti fa dire che devi?”, provando a dare seguito alla sua riflessione. Rimasi stupito, perché in realtà cambiò prospettiva.

“No, hai ragione… non devo essere questo… io sono questo”. Vidi brillare i suoi occhi per la prima volta, li vidi ardere.

Sentii di dover fare un’ultima domanda,  prima di andare avanti: “È ciò che vuoi essere?”.

Si limitò a guardarmi dritto negli occhi serrando la mascella e annuendo impercettibilmente.

“Cosa fai per dare seguito a questa tua volontà?”, chiesi.

Si fece riflessivo, come se stesse studiando un piano, vagliando tutte le alternative possibili in pochi secondi. Ed ebbi la sensazione che si stesse divertendo un mondo nel farlo.

“È vero, non sono più quello di 15 anni fa, ma solo fisicamente. Dentro sono sempre lo stesso. Ho bisogno di cambiare metodo, non vita.”, disse con convinzione ma con la mente rivolta chissà dove.

Lo vidi riflettere per diversi secondi, e lo lasciai fare. Quando sentii che era il momento giusto, andai avanti: “Quali sono le capacità che utilizzi per raggiungere lo scopo?”

“Quelle che ho sempre utilizzato”, rispose con una certa tranquillità, “solo che ora posso fare meno affidamento sul mio fisico. Sebbene io non sia proprio da buttare, va cambiata la strategia.”

E io ero lì, a constatare che la sua forma fisica era ben oltre la media dei cinquantenni, forse anche dei trentenni. “Ora devo lasciare spazio alle persone più giovani” continuò, “facendo in modo di essere comunque un riferimento.

Saranno anche un po’ incoscienti, ma anche io lo ero alla loro età. E Dio solo sa quanto sono stato fortunato. Devo fidarmi di loro e fare in modo che sia io che loro saremo pronti”.

“Cosa fai per essere pronto?”, chiesi per far emergere quel concetto con maggior consapevolezza.

Si fermò, come se fosse stato colpito da un pugno sullo zigomo. Nella risposta c’era una rabbia che stava provando a reprimere: “foro non hanno scrupoli. Certi uomini non cercano qualcosa di logico, come i soldi. Non si possono comprare né dominare, non ci si ragiona né ci si tratta. Certi uomini vogliono solo veder bruciare il mondo.”

Fu il mio turno di ricevere un pugno in faccia. Rimasi in silenzio, non perché fosse la scelta migliore per la sessione, ma perché quello tsunami di cinismo mi lasciò senza parole.

Per fortuna, continuò: “Dovremo agire in una situazione iniqua, dove noi invece dobbiamo mantenere obiettivi e soprattutto valori. Essere pronti significa prepararci ad affrontare di tutto, dalla strategia più elaborata al caos assoluto, non vacillando di fronte a nulla ma… rimanendo noi stessi”.

A questo punto, mi sembrò un buon momento per verificare la mobilità: “Rispetto alla scala da cui siamo partiti, in cui eri a 3 su 6 riguardo la scelta che vuoi fare, dove sei ora?”

Ci pensò qualche secondo, poi rispose con una certa vena di soddisfazione: “sono a 5. Mi manca un passaggio per arrivare a 6, ché però non voglio fare da solo. Ho sempre immaginato di essere autonomo in tutto e per tutto, ma stavolta ne parlerò con Alfred e Dick. Loro devono essere coinvolti nella definizione della nuova strategia. Inoltre sono dei buoni consiglieri, più di quanto abbia mai confessato loro. Dopotutto non posso chiedere a te, giusto?” Mi sorrise, a mo’ di scherno bonario. Contraccambiai il sorriso e annuii. “Siamo quasi in chiusura, Bruce”, chiesi passando alla fase di esecuzione, “Che obiettivo ti dai da qui alla prossima sessione?”

“Non so se posso permettermi un’altra sessione, coach.” Usò quell’appellativo per la prima volta. “Sarò molto impegnato con questa nuova fase della mia vita. Potremmo non vederci più.”

“La decisione è tua, Bruce. lo posso solo rimanere a disposizione. Tuttavia, che obiettivo ti dai una volta che ci saremo salutati?”

Non capitava spesso che un cliente abbandonasse al primo incontro, era necessario mantenere gli obiettivi della sessione.

“Voglio elaborare la nuova strategia, devo immaginarla e capirne i possibili punti deboli e i margini di riuscita. Niente deve essere lasciato al caso”, rispose, di nuovo guardando oltre le mura dello studio, con la mente che andava chissà dove.

“Entro quando vuoi raggiungere questo obiettivo?” chiesi, visto che non ci sarebbe stata un’altra sessione. Lo vidi agitarsi sulla sedia, come se mi fossi intrufolato dove non avrei dovuto. Evidentemente non era ben disposto a dare informazioni riguardo i suoi prossimi passi. Si impegnò a rispondere, seppur con fastidio evidente.

“Prima possibile. Non ho molto tempo a disposizione, la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro. Ti auguro di non trovarti mai… in mezzo a questi affari.”

La verità è che lo capivo molto più di quanto pensasse, ma magari questo lo racconterò in un’altra storia. “Come capirai che hai raggiunto l’obiettivo?”, lasciando comunque cadere il suo monito..

“Quando il futuro davanti a me sarà pianificato, quando ognuno di noi saprà qual è il suo ruolo.” Mi accontentai della risposta e continuai: “qual è la tua prima azione?”

Rimase il fastidio sul suo volto, tuttavia rispose con calma: “ne parlerò con Alfred e Dick. Li convocherò stasera stessa e gli esporrò il tutto, ascoltando le loro idee. Sebbene io mi conosca abbastanza da sapere che non prenderò in considerazione pareri contrari”, disse sorridendo sornione.

Avevo intuito che una persona del genere si cura poco degli ostacoli, o almeno li considera in maniera diversa. Percepivo la sua smania di lasciare lo studio e dedicarsi al suo obiettivo. Tuttavia, ci tenevo a chiudere la sessione come da metodo. “E cosa potrà ostacolarti nel farlo?”

“Ostacoli? Non li considero mai tali, per me ci sono solo elementi da gestire. Non esistono ostacoli per me”, strinse le mani sulle ginocchia e improvvisamente alzò la voce per un attimo, “io sono Ba…”. Riprese il controllo immediatamente:”… sono Bruce Wayne, la complessità è il mio pane quotidiano, in ogni cosa che faccio”.

Non era più insieme a me ormai, era già proiettato fuori a parlare con i suoi confidenti e a pianificare il futuro, era il momento di chiudere la sessione. “E cosa ti faciliterà?”, chiesi per completare la fase.

“I miei compagni sono ineguagliabili. Devo considerare il loro valore molto più di quanto non abbia fatto finora.”

Era chiaro che avevamo finito, lui era soltanto fisicamente nel mio studio. Fu impaziente di andare e sia la chiusura che i convenevoli furono sbrigativi, tuttavia percepii la gratitudine nel suo volto quando mi salutò stringendomi la mano con forza, facendomi valutare una chiamata all’ortopedico l’indomani. Anche io sentivo un sincero senso di soddisfazione: aiutando Wayne, in fondo avevo aiutato anche me.

Finii di stendere il consueto report post-sessione e spensi le luci. Nello studio entrava solo l’illuminazione proveniente dalla strada e, passando davanti allo specchio dell’ingresso, notai che il mio colorito era più pallido del solito. L’insegna della farmacia di fronte, facendo entrare la propria luce dalla finestra, aveva stranamente colorato i miei capelli di verde, colore che si sposava perfettamente con il viola del completo che indossavo.

Appena uscito in strada, a pochi centimetri dal mio viso sfrecciò un pipistrello. Non avevo mai visto un esemplare di quella specie in quel punto della città e con un volo così basso, per giunta. Per quanto dotato di uno dei migliori sistemi di orientamento in natura, si era perso. Osservai il suo volo disordinato per pochi istanti, fino a quando sembrò ritrovare la coordinazione e la direzione, prima di scomparire nell’oscurità.

E non so perché, mi ritrovai con un ampio sorriso e con la convinzione che fosse un buon auspicio per il signor Wayne. E per me.

A volte la mente fa strani scherzi.

Ma vi confesso che, in fin dei conti, a me gli scherzi sono sempre piaciuti.

 

Marco Fusco
Coach professionista e consulente in ambito Business
Castel Maggiore (BO)
fuscomarco80@gmail.com

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