Autoeducazione 101: gli strumenti del coach nel lavoro con i giovani e la mia esperienza personale

Categoria: Autoeducazione 101: gli strumenti del coach nel lavoro con i giovani e la mia esperienza personale

Categoria: Autoeducazione 101: gli strumenti del coach nel lavoro con i giovani e la mia esperienza personale

Autoeducazione 101: gli strumenti del coach nel lavoro con i giovani e la mia esperienza personale

La tensione tra ciò che siamo e ciò che sappiamo di poter essere, dal mio punto di vista, è ciò che ci spinge a credere: credere in noi stessi, credere di arrivare ai traguardi che ci poniamo davanti, credere di poter essere davvero felici.

Quando ho sentito pronunciare la parola eudaimonia al corso di Incoaching ho avuto un flashback momentaneo del primo anno di filosofia al liceo: la vera felicità nella vita come modo di pensare, attitudine, consapevolezza, non come un momento spensierato che ti scivola tra le mani in un battito di ciglia.

Quella parola mi è rimasta impressa in un angolo della mente e ha vibrato, in qualche modo, quando poi ho fatto scelte che all’epoca non avrei mai, mai pensato di fare: ho preso la partenza da capo scout dopo un percorso di 13 anni, ho dato gli esami necessari per insegnare inglese, ho inviato il mio CV a diverse scuole e quest’anno, proprio negli stessi giorni in cui ho iniziato il corso di Incoaching, ho iniziato anche la mia prima supplenza in una scuola superiore.

Ho notato nel corso del tempo che ciò che mi rende felice è un insieme di cose – dalla fatica del mettersi alla prova e vedersi superare uno scoglio, alla rottura degli schemi imposti nel tempo, alla connessione profonda con gli altri, a tanto altro – unite insieme da un filo che chiamo autoeducazione. Sapere che possiamo prendere in mano la nostra vita e darle un senso, imparare a diventare consapevoli di ciò che sentiamo e di ciò che siamo, assaporare l’indipendenza per dare più valore alla relazione, sono solo una parte di ciò che l’autoeducazione può darci. E può farci dare a chi abbiamo intorno.

Tre ambiti che ho avuto modo di sperimentare – coaching, insegnamento e scouting – hanno in comune l’autoeducazione, lo scopo di mettere l’individuo al timone della propria vita, l’individuo che impara a conoscersi in profondità ed essere consapevole di chi è e di che cosa può fare.

Ecco quindi i punti di contatto – e alcune differenze – tra il metodo del coaching, il metodo Scout e la pratica dell’insegnamento: ci sono strumenti del coach fondamentali anche nella “borsa degli attrezzi” del capo scout e dell’insegnante, e sono di solito proprio quelli a farci fare quel miglio in più nel nostro ruolo, oltre al mettere in campo la nostra unicità.

 

Ascolto attivo e Accoglienza: la bellezza della Relazione Facilitante

Da bambino e da adolescente è molto raro essere davvero consapevole di ciò che stai vivendo, ma le emozioni colpiscono comunque molto forte.

Un educatore, in qualsiasi ambito ci si trovi, fa la differenza quando dimostra di vedertidavvero, di ascoltarti senza giudizio, di essere lì per te, e di vedere in te tutte le potenzialità che puoi mettere in atto, senza mai sostituirsi a te nel percorso che fai per imparare qualcosa. Cosa che fa anche un coach.

Ho deciso che sarei diventata capo appena prima del momento che dagli scout si chiama “partenza”, quando ho capito ciò che significava per me fare la differenza, anche minima, nell’aiutare qualcuno a diventare se stesso, a sentirsi visto, ascoltato, liberato dalle etichette che ci incasellano in un ruolo che non vogliamo avere. A eliminare quelle registrazioni mentali di coloro che in ambito di Analisi Transazionale si chiamano Io genitore, il nostro giudice rigido interiore, e Io bambino, piagnucolone e inconsapevole, e ad attuare un comportamento proattivo, quello dell’Io Adulto: lo stato potenziato del qui e ora.

In ambito scolastico la situazione è un po’ diversa dal punto di vista del dialogo, perché l’insegnante, oltre ad ascoltare, spiega, cosa che il coach non fa e che il capo scout fa solo in parte.

Ma l’accoglienza incondizionata e l’ascolto attivo da parte dell’insegnante contribuiscono alla crescita dell’individuo, al di là del rendimento scolastico, nell’acquisizione di consapevolezza e nell’attuazione delle proprie risorse personali, a mio parere più delle spiegazioni ben fatte.

Non sempre a scuola chi riesce a scoprirsi e a migliorarsi lo fa grazie all’aiuto dei professori; spesso, è come avere un voto cucito sul petto ti identifica anche come persona. Niente di più adatto a far dire a un adolescente battute imparate a memoria come “Non ce la posso fare” o “Non sono capace”, da un copione di qualità davvero scarsa.

L’insegnamento, come le attività di scouting e di coaching, avviene in un ambiente sistemico, in quanto vi si partecipa sia in qualità di influenzati che di influenzatori. Per questo l’approccio funzionale a un’ottima gestione di queste relazioni – e ad ogni relazione in generale – che viene, di nuovo, dall’Analisi Transazionale, è la posizione relazionale“io ok” – “tu ok”, in cui coach/coachee, capi/ragazzi, insegnanti/alunni si sentono a proprio agio, di valore, accoglienti, non sotto giudizio o giudicanti. Questa posizione denota auto-ascolto e consapevolezza da parte di coach, capo e insegnante, e stimola lo stesso comportamento di riflesso da parte di coachee, ragazzi e alunni: questo risultato è la parte migliore di tutto il lavoro.

Non si vivono con facilità né l’ambiente scout (con ragazzi di tutte le fasce d’età) né quello scolastico se non si è presenti in se stessi nel qui e ora, con positività e con fiducia: si rischia altrimenti di ricadere in un loopdi frustrazione verso di sé e verso gli altri dal quale è difficile uscire. Ho provato sulla mia pelle che sentirsi ascoltati aiuta ad imparare ad auto-ascoltarsi, e che quando ti senti insicuro e non all’altezza determini negativamente il risultato della tua attività.

 

Obiettivi e fallimenti: imparare la consapevolezza

 A scuola si lavora per obiettivi, si sa, con verifiche e tutto il resto. Le valutazioni, poi, dovrebbero servire da checkpoint: hai imparato qualcosa di nuovo, vai avanti; non l’hai capito, ripeti. Lo stesso sistema che per buona parte del nostro tempo funziona anche nella vita fuori da scuola: finché non capiamo il punto di svolta, tendiamo a commettere gli stessi errori a ripetizione. Il fatto è che spesso nel contesto scuola la valutazione spesso assume un peso che non ha a che fare con un compito in sé, ma con l’allievo, la sua personalità, le sue capacità, e ciò tende, in genere, a far demoralizzare.

Come il coaching va oltre il solo raggiungimento dell’obiettivo, esaltando l’importanza dell’acquisizione della consapevolezza delle proprie risorse e potenzialità e della conoscenza di se stessi in direzione di quell’obiettivo, così si spera possa riuscire a fare la scuola.

Anche nel Metodo Scout si lavora per obiettivi, fin dall’inizio del percorso.

Ogni Branca, ovvero fascia d’età, prevede per i ragazzi la scelta di impegni concreti che li portano verso obiettivi autodeterminati, personali o di gruppo, così come nel coaching abbiamo obiettivi di sessione e di percorso: piccoli passi verso qualcosa di più grande, sempre scelti da noi stessi e per noi stessi, che ci fanno capire un po’ meglio chi siamo e cosa possiamo fare. Per i bambini attraverso il gioco, per i ragazzini con l’avventura, per i più grandi con focus su responsabilità individuale, sull’informazione e sulla crescita personale. In seguito, grazie ai momenti di verifica condivisa, si parla di quali aspettative soddisfatte e di cose da migliorare, senza focalizzarsi sull’eventuale fallimento – o meglio, non raggiungimento – di obiettivi, ma mirando a capirsi meglio, a rendersi consapevoli di cosa si può ottenere mettendosi in gioco con le proprie risorse, a “raddrizzare il tiro”.

Inoltre il capo, come il coach, è “disorientato positivamente”: entrare nella relazione con ognuno dei ragazzi e con il gruppo intero con leggerezza, e così lasciando fuori il sapere, le ipotetiche soluzioni e le idee precostituite si genera un processo nel ragazzo/a che scava dentro di sé e mette in atto quello che è il punto focale del percorso scout, ovvero l’educazione all’autoeducazione.

Tutto questo si ottiene conoscendo il processo: da capo, come da coach, si conosce un metodo e si lascia che i contenuti li porti il ragazzo. Certamente, in modi diversi: un capo che lavora con i bambini, pur basandosi sui loro bisogni, prepara attività per loro in modo più completo; ma poi, man mano che il ragazzo cresce, prende una parte sempre maggiore nella preparazione dell’attività che lui stesso svolge, dal gioco alla riunione, dall’animazione al servizio ai più piccoli, fino a diventare molto più autonomo e consapevole durante il periodo del Clan (fascia d’età 16-20 anni).

In ogni caso, il principio fondamentale nella preparazione dell’attività di scouting fin dal primo anno è quello che Robert Baden-Powell, fondatore dell’associazione, ha definito “Ask the boy” (ca. Anni ‘20).

 

Esplorazione del potenziale: oltre le abitudini e gli schemi di pensiero

Ask the boy” – o Ask the kid, per usare un termine più inclusivo – indica il valore dell’ascolto del singolo per capire quali sono le sue risorse e lasciare che persegua il proprio obiettivo, più che dargli suggerimenti preconfezionati. Al di là del fatto che lo scouting, come anche l’insegnamento, resta un ambito educativo, per cui a differenza del coaching vuole anche insegnare qualcosa, dimostra le potenzialità di un metodo che dà alla persona la possibilità di imparare la consapevolezza e la capacità di scegliere fin da piccoli.

“Paddle your own canoe”è un’altra frase di Robert Baden-Powell famosa in ambito scout, che significa “Guida da te la tua canoa”: questa è l’indicazione più bella che ho ricevuto nel corso del tempo durante quel percorso, oltre che la più utile poi sia in ambito scolastico che non. Imparare a fare domande ai ragazzi che possano stimolare la loro riflessione, la loro coscienza critica e far attingere alle loro risorse personali è uno degli strumenti più utili per insegnante e capo, che possono aiutare chi hanno di fronte usando non solo le conoscenze acquisite nel tempo, ma dando modo ai giovani di mettere loro stessi al centro del processo.

Una delle limitazioni più pesanti che tendiamo a lasciarci imporre dall’infanzia e dall’adolescenza è l’uso delle cosiddette “etichette”, che ci incasellano in un ruolo e ci fanno, per così dire, recitare una parte – dal pigro, al lento, al noioso, al secchione, allo sfigato, al fifone etc.

Recitare quella parte tende, in genere, a lasciarci uno schema di pensiero che potremmo definire “verticale”: “sono sempre stato così, quindi agisco così”, una semplificazione riduttiva e pericolosa per le limitazioni che porta con sé.

Usare il powerful questioningdà la possibilità alla persona di guardare la situazione da una prospettiva diversa, di essere qualcos’altro, di non fermarsi a una definizione, e crescere con una consapevolezza che può portare molto più vicino alla felicità rispetto a ciò che si è abituati a fare seguendo i soliti vecchi schemi a cui possiamo essere stati abituati senza sentirli davvero nostri.

Da coach, da capo, da insegnante, si ha l’opportunità di dare modo alle persone di risvegliare scintille dentro di loro che sembravano sopite o assenti, e di guardarsi dentro in profondità – oltre che farlo per se stessi. Si tratta di mettersi in discussione, scegliere di essere consapevoli, conoscere la nostra capacità di agency.

È vedere la possibilità di mettersi cammino volontariamente per la propria felicità.

 

 

Sara Ballasso

Insegnante & Life Coach
Adria (RO)
sara.ballasso@gmail.com

 

 

No Comments

Post a Comment

Chiama subito