
Diverso o eccellente?
Un giorno Roberto, uno dei partecipanti ad un nostro corso di coaching, mi prestò un libro a cui teneva molto dicendomi: “Franco, leggi questo libro… a me ha aperto gli occhi e mi ha fatto capire molte cose.”
Lo presi ed appena trovato un po’ di tempo iniziai a leggerlo:
“… Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi dicevano che era un bambino difficile. Lui però non capiva in che senso. Non si sentiva per niente difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte contro il muro del giardino, non si rovesciava in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue, e neppure se la prendeva con le caviglie di sua nonna quando giocava con la spada, anche se ogni tanto aveva pensato di farlo. Mangiava di tutto tranne, s’intende, il pesce, le uova, il formaggio e tutte le verdure eccetto le patate. Non era più rumoroso, più sporco o più stupido degli altri bambini. Aveva un nome facile da dire e da scrivere e una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare. Andava tutti i giorni a scuola come gli altri e senza fare poi tante storie. Tormentava sua sorella non più di quanto lei tormentasse lui. Nessun poliziotto era mai venuto a casa per arrestarlo. Nessun dottore in camice bianco aveva mai proposto di farlo internare in un manicomio. Gli pareva, tutto sommato, di essere un tipo piuttosto facile. Che cosa c’era in lui di così complicato?
Fu solo quando era ormai già grande da un pezzo che Peter finalmente capì. La gente lo considerava difficile perché se ne stava sempre zitto. E a quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre naturalmente. Nemmeno tutti i giorni. Ma per lo più gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo in qualche posto, che so, nella sua stanza, oppure al parco. Gli piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri.
Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella persona non lo dice. La gente vedeva Peter sdraiato per terra un bel pomeriggio d’estate, a masticare un filo d’erba o a contemplare il cielo. «Peter! Peter! A che cosa pensi?» gli domandavano. E Peter si rizzava a sedere di soprassalto dicendo: «A niente. Davvero!». I grandi sapevano che nella sua testa qualcosa doveva pur esserci, ma non riuscivano né a vedere né a sentire che cosa. Dirgli di smettere non potevano, non sapendo che cosa stesse facendo …”
Tratto da: L’inventore dei sogni, Ian McEwan, Einaudi Ragazzi, Torino, 1999
Il tema è senza dubbio di grande attinenza con il coaching e riguarda uno dei capi saldi del metodo: l’esplorazione e il potenziamento dell’unicità dell’individuo vista come elemento di ricchezza personale e di arricchimento sociale.
Il fatto è che il non accettare l’unicità dell’altro è spesso direttamente collegato al non accettare una parte di sé. Quella parte che riteniamo non rientrante nel modello di riferimento socialmente accettato ed acquisito. Ma la storia è piena di modelli superati dalla forza prorompente dell’unicità di persone che hanno saputo portare il proprio essere “diversi” all’eccellenza, spesso a vantaggio dell’umanità. Per questo, basti pensare a Madre Teresa di Calcutta che attraverso il suo amore per Dio e verso gli uomini ha saputo rompere le barriere tra “una certa società” e il “diverso”, il povero, l’ammalato, il diseredato. Ma anche Nelson Mandela, che con la sua straordinaria capacità di leadership ha saputo trovare un equilibrio “nuovo” e fino ad allora non omologato per la convivenza di 2 razze che da sempre si erano scontrate e forse fino ad allora mai si erano veramente incontrate. E poi Alex Zanardi, che ha messo in discussione le certezze di chi era riconosciuto “sano” portando tutta la sua audacia nella lotta per la vita buona, quella vita fatta di soddisfazioni, di successi e di felicità al di là dei confini del “corpo normale”, nell’esaltazione positiva della possibile diversità. E poi anche Galileo Galilei che attraverso la sua curiosità ha intuito la sfericità della Terra, Lorenzo il Magnifico che motivato dalla sua inarrestabile voglia di conoscere e capacità di apprezzare la bellezza ha esaltato le arti e i saperi del suo tempo, Mikhail Gorbaciovche con la sua lungimiranza ha traghettato l’Unione Sovietica dalla guerra fredda alla Perestroika, Papa Giovanni Paolo II° che ha fatto della sua malattia e grande sofferenza la bandiera della libertà e della Fede, ecc.. Una cosa accomuna tutti questi grandi della Terra, e tutti gli altri che hanno permesso di fare passi avanti all’umanità: il loro essere “diversi” rispetto ai più, la loro voglia di essere uguali solo a sé stessi.
Ognuno di loro, infatti, ha trovato la motivazione e la forza per rompere con il modello esistente dato da uomini e donne “uguali”, portando il mondo in una direzione migliore.
Ora, tutto questo cosa c’entra con Roberto e il coaching?
Per chi conosce il coaching la risposta è fin troppo scontata: il coaching ricerca ed esalta l’unicità delle persone e ne sviluppa l’espressione. Nel coaching l’eccellenza dell’individuo si fonda necessariamente sulla sua unicità, una diversità che racchiude in sé la sua vera e più prorompente potenzialità.
È infatti l’omologazione intrinseca ai modelli “socialmente accettati” che spesso pone l’individuo di fronte ad un ostacolo quasi insormontabile e che non gli fa raggiungere la felicità. Nel coaching l’eccellenza è il frutto del benessere personale, della felicità e della piena autorealizzazione della persona.
Tornando a Peter Fortune, il protagonista della storia:
“… Loro non vedevano altro che un ragazzino tutto preso a contemplare il cielo senza battere ciglio, un ragazzino che, se qualcuno lo chiamava, neppure rispondeva.
Quanto a stare per conto suo, beh, neanche quello ai grandi andava giù. A malapena sopportano che lo faccia uno di loro. Se ti unisci alla compagnia, la gente sa che cosa ti passa per la mente. Perché è la stessa cosa che sta passando per la mente degli altri. Se non vuoi fare il guastafeste, devi unirti alla compagnia. Ma Peter non la pensava così. Non aveva niente in contrario a stare con gli altri quando era il caso. Ma la gente esagera. Anzi, secondo lui, se si fosse sprecato un po’ meno tempo a stare insieme e a convincere gli altri a fare lo stesso, e se ne fosse dedicato un po’ di più a stare da soli e a pensare a chi siamo e chi potremo essere, allora il mondo sarebbe stato un posto migliore, magari anche senza le guerre.
A scuola Peter spesso lasciava Peter seduto nel banco, mentre la sua mente partiva per lunghi viaggi, ma anche a casa gli era capitato di avere delle noie per quei sogni a occhi aperti.
…
A scuola, il problema dei sognatori a occhi aperti, e di poche parole per giunta, è che gli insegnanti, specie quelli che non vi conoscono bene, tendono a considerarvi un po’ stupidi. O se non proprio stupidi, come minimo tonti. Non c’è nessuno che riesca a vedere le cose fantastiche che vi passano per la testa. Se un insegnante vedeva Peter assorto a scrutare fuori dalla finestra, o bloccato davanti a un foglio bianco, pensava che si stesse annoiando o che non sapesse la risposta al quesito. Ma la verità era ben diversa…”
Tratto da: ibidem
Certo, l’accostamento tra “diverso” e incapace è molto breve ed altrettanto frequente da parte di chi è omologato. Il punto è di riuscire a cambiare la prospettiva sul significato dato alla diversità, sia da parte di chi la osserva, sia da parte di chi la vive. Il coaching considera l’unicità della persona una potenzialità, una vera e propria fonte di forza, ed è su questa base che va a costruire il percorso individuale di sviluppo verso l’eccellenza.
La potenzialità di Peter allora qual’era? Senza dubbio la capacità di vedere oltre ciò che era semplicemente ed oggettivamente osservabile, la capacità di far viaggiare il pensiero in scenari inusuali, la capacità di fantasticare, di sognare…
Dimenticavo… la storia prosegue:
“… Dal canto suo anche Peter, crescendo, imparò che, siccome la gente non riesce a vedere che cosa ti sta passando nel cervello, la cosa migliore per farsi capire è dirglielo. E così incominciò a scrivere alcune delle avventure che gli capitavano mentre guardava dalla finestra o se ne stava sdraiato a fissare il ciclo.
Da grande diventò un inventore e scrittore di storie e visse una vita felice. In questo libro, troverete qualcuna delle imprese accadute dentro la testa di Peter, trascritte con fedeltà assoluta all’originale… “
Tratto da: ibidem
In ultimo, un ringraziamento a Roberto il quale mi ha suggerito la lettura di questo libro ed ha scoperto nella storia la sua essenza di coach.
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