
Health Coaching e patologie croniche, ossia evolvere per curarsi: evidenze scientifiche e riflessioni personali
Premessa
Il mio percorso di avvicinamento al Coaching è stato lungo e tortuoso e mi piace farlo iniziare da quel giorno in cui, studente di quinta superiore in un istituto tecnico, mi presentai allo sportello di supporto psicologico messo a disposizione dalla scuola.
Ad accogliermi trovai una giovane psicologa di cui tanti studenti parlavano e soprattutto sognavano. Parlando dei miei programmi per il futuro, raccontai del mio desiderio di diventare un fisioterapista e fu allora che la dott.ssa, facendomi notare che quella del fisioterapista è una professione che richiede una certa propensione all’aiuto di persone in qualche modo in difficoltà, cercò di approfondire quanto ne fossi consapevole e portato.
Da quel giorno iniziò un percorso formativo e professionale spesso contorto e talvolta confuso, alla continua ricerca del mio personalissimo modo di aiutare l’altro e di esprimere le mie potenzialità.
Il Coaching, dopo il conseguimento della laurea in fisioterapia e di quella triennale in psicologia, rappresenta una tappa importante di questo percorso, capace di allargare la mia prospettiva sulle dinamiche relazionali coi miei pazienti in cui talvolta mi sento incagliato nel rigido e improduttivo schema “esperto-bisognoso”.
Per esempio, grazie al Coaching sto iniziando a capire quanto sia importante valorizzare l’unicità della persona che ha chiesto il mio intervento e permettere che sia lei a creare la sua personalissima agenda del cambiamento. Ecco allora che al posto delle logore raccomandazioni direttive del tipo “dovresti camminare almeno 30 minuti al giorno per avere qualche beneficio nella gestione della tua malattia, altrimenti continuerà a peggiorare”, stanno iniziando a farsi strada domande tese ad innescare una riflessione sul proprio personalissimo modo di mantenersi in forma e convivere al meglio con la malattia fisica.
Tuttavia, poiché non mi accontento di utilizzare alcuni strumenti caratteristici del Coaching nella pratica quotidiana della mia professione ma ambisco a diventare un Health and Wellness Coach nel vero senso della parola, in questa tesina abbozzerò un minimo approfondimento sul ruolo che il Coaching può avere nella gestione di lungo termine delle patologie croniche, con un richiamo alle possibili implicazioni per le politiche pubbliche, tema a cui riservo sempre grande attenzione.
Lo farò nell’unico modo che in questo caso ritengo opportuno, ossia avvalendomi della letteratura scientifica più solida sin qui pubblicata sul tema. In particolare, riporterò sinteticamente i risultati emersi da alcune review sistematiche e meta-analisi che hanno affrontato il tema.
Introduzione
Le patologie croniche rappresentano una delle più grandi sfide a cui le società del benessere sono chiamate a trovare risposte efficaci ed efficienti. Nella solo Unione Europea sono la principale causa di mortalità e morbidità (WHO, 2022) e poiché si possono in larga parte prevenire (WHO, 2009) interrogarsi sul come fare è uno snodo cruciale per una migliore gestione complessiva del fenomeno.
Negli anni più recenti, un crescente numero di ricercatori si sta interrogando sul ruolo che l’Health Coaching può svolgere nel promuovere nella popolazione di riferimento quei cambiamenti di comportamento e di abitudini quotidiane atti a diminuire l’incidenza delle patologie croniche e a favorirne una gestione più corretta (Frates e coll., 2011).
A testimonianza del crescente interesse che gravita intorno al Coaching, basti notare la rigogliosa fioritura di pubblicazioni scientifiche sul tema in oggetto.
Avvalendosi per esempio di PubMed, motore di ricerca dedicato alla letteratura biomedica, si può notare come nel 2000 furono pubblicate solo 3 ricerche ad oggetto “Health Coaching and chronic diseases” mentre nel 2022 sono state ben 175.
In questo elaborato passerò brevemente in rassegna la letteratura scientifica dedicata al tema, concentrandomi soprattutto sul ruolo che il Coaching può avere nel supporto nel lungo periodo dei pazienti affetti da patologie croniche.
Principali evidenze scientifiche
La maggior parte degli studi sin qui pubblicati reputano gli interventi di Coaching in qualche modo efficaci nel favorire nel breve periodo l’adozione di stili di vita più sani e aderenti alle raccomandazioni per un’oculata gestione delle patologie croniche (Wolever e coll., 2013; Olsen e Nesbitt, 2010).
Invece, l’effetto nel lungo periodo resta controverso (Hill e coll., 2015; Olsen e Nesbitt, 2010). Tuttavia, in un quadro caratterizzato da dinamiche demografiche che stanno asciugando le coorti più giovani e vedono un vertiginoso aumento di quelle più anziane (restando nel panorama italiano, ISTAT stima che nel 2050 la popolazione over 65 sarà quasi il 40% del totale), non si può prescindere dalla sostenibilità economica degli interventi socio-sanitari. Pertanto, il promettente filone del Coaching potrà assumere un ruolo importante nella gestione dei pazienti cronici e divenire una best practice solo se ne verrà dimostrata l’efficacia nel lungo periodo.
A tal proposito, nel 2017 è stata pubblicata una review sistematica tesa proprio a chiarire lo stato dell’arte circa l’efficacia dell’Health Coaching nel lungo periodo (Dejonghe e coll., 2017). La review ha incluso 14 RCTs (Randomized Controlled Trials) tra le 193 pubblicazioni sul tema passate al vaglio. Di questi 14 RCTs, sei hanno ottenuto risultati statistici significativi a supporto dell’efficacia dell’Health Coaching nel lungo periodo, laddove per lungo periodo si intende un lasso di tempo di almeno 24 settimane.
Questo dato, di per sé incoraggiante, sconta tuttavia alcuni limiti.
Infatti, i ricercatori sottolineano che il concetto di Coaching, la popolazione di riferimento, gli interventi effettuati ed i risultati ottenuti sono alquanto eterogenei.
Le conclusioni a cui giungono i ricercatori confermano un divario tra la rilevanza di questo approccio e i suoi effetti nel lungo periodo.
A conclusioni simili giungono anche altre review che peraltro sottolineano i medesimi limiti illustrati da Dejonghe e colleghi.
Ad esempio, sia Wolever (Wolever e coll., 2013) che Hill (Hill e coll., 2015) rimarcano che sotto l’etichetta “Health Coaching” troviamo spesso interventi assai diversi tra loro, il che rende difficile valutarne l’efficacia.
Chiarire a cosa ci si riferisce quando si utilizza il termine “Health Coaching” appare dunque dirimente. Su questo tema, un’interessante scoping review del 2020 (Obro e coll., 2020) si è posta l’obiettivo di capire se integrare l’Health Coaching con strumenti di mobile health come app e rilevatori di attività motoria e parametri vitali, apporta benefici nell’auto gestione delle patologie croniche.
Al di là dei risultati emersi, che non sono rilevanti per lo scopo del presente elaborato, merita sottolineare come gli autori, anche in questo caso, imputano alla mancanza di univocità nel concetto di Health Coaching l’anello debole nella comprensione del ruolo che lo stesso può avere nel supporto dei pazienti cronici. Gli autori aggiungono che alla mancanza di cornice teorica si somma un problema possibilmente più critico, ossia il fatto che spesso gli interventi di Health Coaching sono erogati da personale non qualificato o comunque scarsamente formato.
A tal proposito, una review del 2014 (Kivelä e coll., 2014) è giunta alla conclusione che Health Coaches professionisti o, in alternativa, psicologi appositamente formati siano un elemento chiave per spiegare l’efficacia dell’intervento di Health Coaching nei pazienti cronici.
Anche le review che si focalizzano su specifiche patologie riconoscono gli stessi limiti sin qui descritti.
Una meta-analisi incentrata sull’impiego dell’Health Coaching come strumento di supporto in pazienti sovrappeso/obesi coinvolti in programmi di dimagrimento (Sieczkowska e coll., 2021), giunge alle seguenti conclusioni:
“Of particular concern was the lack of information on the professional status and training level of those administering the health coaching intervention […]”.
Infine, un’altra meta-analisi (Long e coll., 2019), questa volta condotta su pazienti affetti da bronchite cronica ostruttiva (BPCO), afferma, nelle sue pur incoraggianti conclusioni, che al fine di programmare interventi di Health Coaching efficaci ed efficienti resta da capire quale sia la figura professionale più idonea, tenendo conto che essa deve necessariamente interfacciarsi con il personale sanitario che ha preso in carico il paziente.
Discussioni e conclusioni
Ciò che emerge con più urgenza da questa breve carrellata di studi è la necessità di chiarire cosa è Health Coaching e cosa non lo è, oltre a stabilire chi è titolato a erogare il servizio.
L’impressione che si ricava nel leggere la letteratura dedicata al tema è quasi quella che all’Health Coaching manchi una cornice epistemologica condivisa.
Come suggerito da Sieczkowska (Sieczkowska e coll., 2021), precondizioni affinché la ricerca sul ruolo dell’Health Coaching possa progredire e contribuire al benessere dei malati cronici sono:
- 1) La ricerca di un consenso ampio su cosa sia l’Health Coaching e quali siano i suoi concetti fondanti;
- 2) Una definizione il più possibile chiara, dettagliata e condivisa di come si pratica l’Health Coaching;
- 3) Un percorso formativo appropriato e riconosciuto per coloro che esercitano la professione (a tal proposito merita sottolineare che nella lettura di questi articoli non mi sono mai imbattuto in riferimenti all’ICF).
Questa rapida rassegna della letteratura che, dato il contesto, non ha nessuna pretesa di essere esaustiva, mi offre l’opportunità di avanzare qualche considerazione sul tema, anche alla luce delle prime esperienze da coach avute coi miei pazienti.
La prima considerazione che mi sento di avanzare è connessa al concetto di coachability; com’è noto, precondizione affinché qualsiasi percorso di Coaching possa iniziare e portare a risultati positivi è che il coachee condivida lo spirito che anima lo strumento e che abbia il desiderio di progredire in una determinata area della sua vita facendo leva sulle sue potenzialità.
A mio avviso, è facile scivolare su questo punto e considerare superficialmente i pazienti cronici come soggetti potenzialmente candidati a beneficiare dell’Health Coaching. La tentazione di esaltare determinati approcci, specie quando di moda, e di propinarli a prescindere dall’unicità del paziente che abbiamo di fronte solo poiché facente parte della categoria “paziente cronico”, è un bias che può aver influenzato gran parte degli studi compresi nelle review di cui ho scritto.
In fondo, perché l’essere portatori di una patologia cronica dovrebbe renderci in automatico desiderosi di cambiare il nostro stile di vita per adeguarlo a ciò che le linee guida raccomandano?
La mia esperienza clinica mi suggerisce altro, ossia che la condizione di malato cronico, specie in caso di malattie gravi e invalidanti, rischia di acuire e cristallizzare certe rigidità caratteriali che precludono la possibilità di aprirsi al cambiamento che il Coaching punta a promuovere. Pertanto, attenzione a considerare l’Health Coaching lo strumento buono per tutti, come se si potesse prescindere dall’unicità dei pazienti che abbiamo di fronte e dalle loro attitudini.
Collegata a questa prima riflessione ne è scaturita un’altra che in un certo senso ha l’ambizione di rappresentare un possibile filone di ricerca futuro. Posto che la coachability è una precondizione necessaria sebbene non sufficiente, se i ricercatori fossero in grado di stimarla attraverso un questionario o uno strumento similare, potrebbero di conseguenza scremare i pazienti cronici che vengono coinvolti nei gruppi di ricerca.
Per esempio, mi domando: ci sono alcuni profili di personalità che hanno statisticamente poche probabilità di trarre beneficio da un percorso di health coaching? Oppure stili cognitivi scarsamente orientati al cambiamento? E ancora: il grado di radicamento di certe convinzioni a proposito della propria malattia in che misura influenza la disponibilità del paziente a mettersi in gioco?
Queste domande sollevano una questione tanto controversa quanto cruciale su cui sarebbero necessari approfondimenti per conferire più solidità a quei programmi di Health Coaching erogati su larga scala che si pongono all’interno di un contesto di salute pubblica.
Come ho sinteticamente accennato nell’introduzione, le patologie croniche pongono una grande sfida socioeconomica alle società moderne e l’Health Coaching sta emergendo come un possibile strumento di salute pubblica in grado di aiutare a prevenirle e/o meglio curarle. Tuttavia, affinché sia adottato su larga scala sarà necessario dimostrare la capacità del coaching di innescare cambiamenti di lungo termine e di essere economicamente sostenibile.
Pertanto, mi domando: non varrebbe la pena di provare a individuare dei predittori di successo al fine di selezionare a monte i destinatari dell’intervento di Coaching finanziato con risorse pubbliche anziché somministrarlo a pioggia sulla base di una categoria diagnostica o della semplice appartenenza alla macrocategoria “pazienti cronici”?
Mi rendo conto dei risvolti etici impliciti in questa domanda che in un certo senso evoca la decisione di escludere a priori, sulla base di test predittivi, la possibilità che qualcuno possa intraprendere con successo un percorso evolutivo nella convivenza con la propria patologia. Tuttavia, è altrettanto doveroso ricordare che un impiego etico di risorse pubbliche imporrebbe che le politiche socio-sanitarie siano sostenute da evidenze scientifiche che ne dimostrino l’efficacia e l’efficienza e, allo stato attuale, l’Health Coaching non può fregiarsi di questo status.
Riflessioni personali
In chiusura desidero concedermi qualche riflessione personale, non necessariamente connessa alle pubblicazioni scientifiche oggetto di questo breve elaborato.
Nella mia pratica clinica e riabilitativa mi sono sempre sforzato di farmi ispirare dall’evidence based medicine, ossia dal corpo di evidenze scientifiche più solide a cui la comunità professionale di riferimento attinge per guidare la propria attività. Ciò deriva dalla mia totale fiducia nel metodo scientifico a cui riconosco una capacità unica di conferire ordine e interpretabilità al mondo, contribuendo in maniera determinante al progresso umano.
Tuttavia, così come mi affido alla scienza con profonda convinzione, altrettanto convintamente rigetto un’interpretazione deterministica di ciò che le ricerche scientifiche suggeriscono, specie quando l’oggetto di ricerca è l’essere umano in senso lato. I piani che si intrecciano sono talmente tanti e le variabili così mutevoli e interagenti da rendere pressoché impossibile assumere di poter prevedere con certezza matematica cosa determina l’agire umano.
Pertanto, ben vengano le ricerche sul ruolo che il Coaching potrà assumere nel sostenere i pazienti affetti da patologie croniche, soprattutto se la comunità scientifica riuscirà a convergere verso una definizione condivisa del concetto di Coaching applicato alla salute e sarà capace di individuare alcune prassi metodologiche statisticamente più efficaci.
Tuttavia, mi pare altrettanto fondamentale chiarire che solo accogliendo e valorizzando l’unicità del malato è possibile progredire verso percorsi di cura sempre più efficaci.
Come la medicina e la farmacologia si stanno muovendo nella direzione dell’approccio personalizzato alla malattia, fondato sulla lettura e interpretazione degli esiti patologici derivanti dell’interazione tra genoma umano e ambiente al fine di elaborare trattamenti il più possibile mirati, allo stesso modo la scienza del benessere, cornice di riferimento entro cui inquadro l’Health Coaching, progredirà nella misura in cui riuscirà a conciliare il rigore scientifico, ignoto ai molti ciarlatani che operano in questo settore, con il sacro rispetto dell’unicità delle persone, abbandonando ogni velleità di standardizzazione.
In fondo, come mi ha insegnato un mio paziente che ha accettato di intraprendere un percorso di Coaching, “un modo per curarsi è evolvere”.
In queste parole ho colto il desiderio di raccogliere la sfida che la malattia gli ha lanciato: da una parte una lenta quanto inesorabile involuzione nel fisico e nell’anima, dall’altra un percorso di riscoperta del sé pur dentro i limiti imposti della malattia.
Ecco, il più grande insegnamento che per il momento ho tratto dal coaching consiste nell’invito ad abbracciare un cambio di prospettiva radicale quando mi approccio ai miei pazienti cronici e degenerativi: da soggetti passivi da aiutare affinché compensino e tamponino al meglio le loro menomazioni e conseguenti disabilità, a soggetti attivi portatori di valori in cerca di un nuovo senso da dare alla loro vita.
Un passaggio tanto delicato quanto essenziale che trasforma la malattia da un “perché proprio a me?” in un’occasione evolutiva alla riscoperta di un nuovo sé.
Coniugare questo con il rigore scientifico e la sostenibilità economica è una sfida tanto impervia quanto avvincente.
Paolo Garavaglia
Legnano (MI)
Fisioterapista e Coach
paolo.garavaglia86@mail.com
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