
La Relazione di Coaching
Introduzione
“Durante le vacanze estive, nel podere dei miei nonni ero solito, ogni volta che potevo farlo senza essere visto, sgattaiolare nella stalla per accarezzare il dorso del mio beniamino, un grande cavallo grigio a chiazze bianche (…). L’animale mi rivelava l’Altro, l’immane alterità dell’Altro, la quale però non restava estranea, come nel caso del bue e del montone, ma si lasciava avvicinare e toccare. Quando accarezzavo la potente criniera, a volte straordinariamente liscia, a volte altrettanto sorprendentemente selvaggia, e sentivo vivere la vita sotto la mia mano, era come se l’elemento stesso della vitalità venisse a contatto con la mia pelle, qualcosa che non ero io, non ero assolutamente io, l’io familiare, ma tangibilmente l’Altro, non semplicemente un altro, ma proprio l’Altro in se stesso, il quale però si lasciava avvicinare da me, si confidava con me, si presentava semplicemente a tu per tu con me(…). Un giorno però – non so cosa passò nella mia mente di ragazzo, in ogni modo era qualcosa di abbastanza puerile- accarezzando l’animale pensai che era cosa piacevole e improvvisamente sentii la mia mano. Il gioco cominciò come sempre, ma qualcosa era mutato, non era più la stessa cosa. E quando il giorno successivo (…) accarezzai la groppa al mio amico, egli non alzò più la testa. Già qualche anno dopo, ripensando all’episodio, non ero più convinto che l’animale si fosse accorto della mia defezione, ma in quel primo momento mi sentii condannato”
(M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, Ed. San Paolo, Milano 1993, p.209).
Questo breve lavoro intende proporre alcuni dei temi affrontati durante il corso, relativi alla relazione di coaching e ad alcuni termini ad essa collegati, per poi accostarli ad una modalità del pensiero più vicina alla filosofia. I termini ‘relazione’ e ‘comunicazione’ li troviamo contraddistinti nel pensiero dell’autore scelto come ‘interrelazione’ o ‘relazione dialogica’ e dal dialogo come una modalità specifica della relazione autentica. L’autore in questione è Martin Buber, uno dei più rappresentativi filosofi ebrei del secolo scorso.
Poniamo pertanto come partenza il secondo assioma sulla comunicazione umana di Paul Watzlawick:La comunicazione umana si sviluppa sempre su due piani: il contenuto e la relazione, poiché attorno alle dinamiche proprie di tale relazione e comunicazione fatta di assenza di giudizio, capacità empatica, accoglienza di sé, ascolto e silenzio, alleanza e autenticità ho voluto affiancare un saggio di Martin Buber del 1954 dal titolo Elementi dell’Interumano[1]
E’ la situazione di crisi il terreno da cui Buber inizia la sua indagine (Buber si sentì profondamente coinvolto nella crisi del suo tempo) e che descrive come una delle più profonde crisi, eppure è proprio a partire da tale condizione che l’essere umano è in grado di porsi la domanda, il ‘problema’ di sé stesso. Quando l’uomo diventa ‘solo’ riesce a comprendere e vedere la sua solitudine, allora il problema può essere posto seriamente a condizione che il cammino sia segnato dal superamento della solitudine stessa, pur non perdendone la sua forza rigenerante.
Il Coach: persona capace di relazione
Occorre fare un accenno circa la considerazione sulla persona, nel panorama posto dal nostro autore. L’essere umano è un essere di linguaggio, non solo considerato nella sua forma verbale, ma nelle forme espressive dei sovra-linguaggi, dei gesti, delle posture e i linguaggi collaterali come la musica, l’arte ecc. La struttura del linguaggio ha ragion d’essere poiché essa ha sede nella identità relazionale propria dell’esistere umano. Di tale struttura il corpo è il primo simbolo reale, è ciò che pone l’uomo nella relazione di fronte al mistero del tu.
Il corpo è così contemporaneamente presenza e parola rivolta che permette la realizzazione della disposizione della persona a stare nella reciprocità responsabile della relazione. Essere fisicamente presenti infatti non è sufficiente perché lo spazio dell’interrelazione si verifichi, occorre che l’io stia con tutto se stesso di-fronte al tu,dono e accoglienza, rivelazione e risposta.
Diciamo che nell’io-esso (Buber individua due modalità di porsi nell’esistenza l’io-esso e l’io-tu) possiamo individuare la persona che vive utilizzando, le cose, oggettivandole da se, come anche l’uso del linguaggio informativo, o quello delle scienze, della tecnica. Con l’esso l’essere umno riesce a muoversi nel mondo delle cose attraverso significati condivisi e riconoscibili. Il linguaggio, poi, è anche il luogo dell’espressione del mondo interiore della persona. Qui la parola diviene rivelativa del sé, del dirsi dell’io nei suoi sentimenti, nei suoi ricordi ed emozioni, ma siamo ancora in una dimensione di ‘separazione’ dell’io.
Un passaggio ulteriore avviene quando entriamo nella dimensione sopra definita dell’ io-tu. Ora la parola si fa dialogo, appello rivolto all’altro.
Pronunciare la parola io-tu è stare nella dimensione della interrelazione, ove i due partecipanti sono lì presenti l’uno all’altro, nel manifestarsi reciproco di un linguaggio che comunica anche senza il suono della voce. Questo presuppone la presenza nella persona della dimensione del dialogico, cioè di quel movimento fondamentale che intende ‘dialogico’ come una azione essenziale, interiore, dell’essere umano da cui poi scaturisce la reciprocità. Uomini e donne perché ciò accada ‘devono’ essere ri-volti l’uno all’altro poiché il linguaggio si caratterizza originariamente come azione interiore, come disposizione a stare nella relazione, non solo per dare e ricevere messaggi; perché ci sia il dialogo, la comunicazione, deve poter esserci comunione. L’io-tu è il luogo della relazione e la relazione non è nell’io ma -tra- l’io e il tu.
La via perseguita e proposta da Buber, quella dello “Zwischen” (-tra-), è definita anche lo spazio dell’interumano, luogo dell’incontro tra due individui.
Lo Zwischen è il luogo della parola perché se molti sono i linguaggi dell’uomo uno solo è lo spirito ed esso è risposta al tu. È nello Zwischen che si dipana il dialogico, dove l’io vive nella relazione, ma è ciò che fra l’io e il tu avviene li costituisce in quanto tali.
Ad un primo sguardo ci si chiede perché interrogarsi sulla persona per parlare della relazione del coaching, se non sia un rischio o una forzatura porre il coach e il coachee in una dinamica di accesso all’altro, di reciprocità. Eppure quello che il movimento fondamentale, il dialogico, reputa come proprio della persona non è il contenuto di una relazione, ma la disposizione a stare-di-fronte. Lo spazio immediato che si crea, lo Zwischen, è il luogo in cui l’io si dispone con tutto se stesso di-fronte al tu e dal quale è accolto nella stessa dinamica; questo è il luogo della fiducia della fedeltà. Riflettere sui testi di questo autore in maniera approfondita e appassionata (qui direi violentemente riassunti) potrebbe dare ad ogni coach uno spunto vitale per pensarsi, a prescindere dalla professionalità ma ancor più proprio a partire da questa e in visione della propria autenticità
CAPITOLO II: La conversazione autentica come metodo
Il saggio ‘Elementi dell’Interumano’ definisce poi ‘chiacchiera’ la maggior parte di ciò che tra gli uomini ha nome di conversazione. Capita spesso che ognuno, pur rivolto all’altro, parli ad una istanza fittizia cioè a qualcuno la cui funzione si esaurisce nell’ascoltarlo
L’apparenza e l’insufficienza della percezione dell’altro sono due momenti che ostacolano l’interumano e ve n’è un terzo ed è quello proprio della propaganda, dell’imposizione delle proprie idee, opinioni e comportamento all’altro, in modo tale che questi addirittura creda che la sua visione gli sia propria e che l’interlocutore l’abbia solo fatta venire alla luce.
A questa figura Buber contrappone quella dell’educatore, colui che vive in un mondo di individui che di volta in volta sono affidati alla sua cura. Ciascuno degli individui per l’educatore è unico, destinato ad un compito proprio e non altrui e con un proprio metodo e cammino e questo l’educatore lo sa e lo crede perché ne ha fatto esperienza personale e sa che in ognuno ci sono forze attualizzanti in lotta con il microcosmo di forze antagoniste.
L’educatore è colui che si mette come aiutante delle forze attualizzanti che hanno agito e agiscono in lui come le altre, e che mette a disposizione la conoscenza di ciò, di volta in volta, perché si compia una opera nuova. Ma poiché in ogni persona vi è il giusto, ma “in un modo unico e personalmente determinato, nessun altro modo può essere imposto a quest’uomo, ma un modo diverso quello dell’educatore, può e deve aprire a ciò che è giusto, così come esso, proprio qui, vuole divenire e aiutarlo a svilupparsi”[2]. Dunque, volendo brevemente riassumere le caratteristiche della conversazione autentica, l’autore conclude analizzando e ponendo a fondamento il rivolgersi al compagno in tutta verità. In tale contesto intendere qualcuno significa rendere l’altro presenza e questo rivolgersi implica conferma (dell’altro) e accettazione; dire ‘sì’ a lui in quanto presente non significa che si debba tutti dire qualcosa , ma solo che ognuno è li pronto a non tirarsi indietro.La relazione come evento, perciò non ha durata, ma avviene nell’attimo.
In questo colgo tutta la portata creatrice di percorsi del metodo che con l’ascolto attivo, le domande e i rimandi percorre, senza dettare la strada, la via col coachee. Ora se è pur vero che il coachee è alla guida, è altrettanto vero che la presenza del coach non è un elemento neutro. Non dettare le strade non significa non esserci, non influire nella dinamica della riflessione.
La libertà cercata e difesa nel coachee non implica perciò l’assenza o per meglio dire il farsi neutro del coach, ma piuttosto le trovo più adeguato lo stare-di fronte che implica presenza responsabile e fiduciosa.
Il dialogo condotto con metodo nel coach è struttura portante, in Buber è struttura propria della persona. Tutto ciò non è in contraddizione se si permette ad entrambi gli usi (differenti ) del termine di azzardare un punto di incontro proprio nel fatto che nulla come ciò che proprio dell’essere umano, può avere una valenza creatrice di percorso di crescita e sviluppo delle potenzialità e risorse di ognuno.
Questo non significa che l’uomo e la donna come individui non esistono, ma sottolinea che la persona si realizza autenticamente nella reciprocità di un incontro personale. “Non si tratta di pensare un altro, e nemmeno di pensarlo come altro, ma invece di volgerci verso di lui per dire a lui Tu”[3] e questa non è la garanzia che la risposta arrivi immediata, anzi la relazione di risposta del tu è una nuova relazione poiché dove non vi è autentica risposta non c’è autentica relazione. Essa infatti è scegliere e essere scelti
Così come nessuna relazione di coaching può essere condotta se il coachee non si assume di stare anche lui autenticamente nell’incontro e di percorrere la sua strada. La responsabilità è personale la reciprocità è compresenza.
Lucia Magrini
luciamagrini@libero.it
Fano (PS)
[1] M.BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p-293-314
[2] Ivi, p.308.
[3] E. Lévinas, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p.26.
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